Il ruolo della rivista Barazoku nella formazione di una comunità LGBT in Giappone
Barazoku è la prima rivista del Giappone rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale. Viene fondata agli inizi degli anni ’70 da Itō Bungaku, un uomo (eterosessuale) con un incredibile sensibilità. Era un periodo particolarmente intenso a livello mondiale per la comunità LGBT, che da Stonewall in poi iniziò a reagire ai soprusi e alle violenze alzando la voce. La storia della comunità omosessuale giapponese si inserisce in questo contesto, ma in un Paese in cui la contestazione feroce e violenta non è mai contemplata in nessun ambito, la storia è stata diversa.
“TRENT’ANNI DI BARAZOKU”è il titolo dellibroche ho scritto per raccontare ai lettori in Italia le dinamiche peculiari che hanno portato alla nascita della moderna gay community giapponese. Attualmente questo è l’unico libro in lingua italiana disponibile sull’argomento.
La storia della formazione di una gay community giapponese è un’avventura che si è sviluppata sotto la superficiale dell’acqua. All’oscuro degli occhi della gente, e al tempo stesso lì, sugli scaffali delle librerie, compariva Barazoku. Non una semplice rivista, bensì la prima, quella che ha innescato il meccanismo che avrebbe portato nel corso del trentennio di pubblicazione alla nascita e all’affermazione di una gay community in senso moderno.
La rivista come prima piattaforma di interazione
Prima dell’avvento di Barazoku, al di là dei cinema a luci rosse, i parchi, i bagni pubblici e pochi altri escamotage più o meno leciti per incontrare altri omosessuali, in Giappone non erano molti i luoghi di incontro e socializzazione. La messa al bando del business della prostituzione nel 1957, ha favorito la prolificazione dei bar a tematica gay nel quartiere di Shinjuku Nichome, a Tokyo. Nell’arco di dieci anni, fino alla fine degli anni ’60, Nichome era diventata una roccaforte dell’intrattenimento per omosessuali. Tuttavia, questo non necessariamente corrispondeva alla creazione di ambienti di interazione, e soprattutto tagliava fuori tutti quelli che non abitavano nella metropoli.
Barazoku, per la prima volta, fornì alla disconnessa comunità omosessuale giapponese la possibilità di incontrarsi su una piattaforma inizialmente virtuale. Era “solo” una rivista ma la “Rubrica dei lettori” permise un fitto scambio di opinioni, sensazioni, gioie, dilemmi, emozioni. Un luogo, seppur astratto, in cui condividere esperienze e sviluppare un linguaggio comune, un sentire proprio a un gruppo definito. Barazoku ha dato il via alla formazione di una identità di genere omosessuale in Giappone, prima tramite le pagine della rivista, poi organizzando il primo incontro fisico, nel 1974, tra i lettori della rivista. Non una semplice festa, bensì il primo evento che ha riunito nella stessa stanza più di cento omosessuali giapponesi.
Il ruolo sociale della rivista
In un’epoca in cui le comunicazioni scorrevano a velocità ben più analogica, Barazoku ricoprì un ruolo fondamentale nell’informare e nel tenere insieme la comunità omosessuale giapponese. La notizia relativa alla scoperta del virus dell’HIV, che sconvolse il mondo intero, fu gestita in maniera a dir poco grottesca in Giappone. Il Governo mise in atto un’opera di insabbiamento della verità per camuffare i risvolti tragici di un proprio errore imperdonabile e far così tornare i conti a proprio vantaggio. Ma in tutte le catastrofi c’è bisogno di un capro espiatorio. Vi lascio immaginare com’è andata la storia.
Il libro di Barazoku
・Come erano concepite tradizionalmente le relazioni omosessuali nel Giappone? ・Da dove origina la comunità LGBT giapponese? ・In che contesto è nata Barazoku? Chi l’ha fondata? ・Che tipo di supporto ha offerto la rivista e come ha contribuito alla formazione di una gay community?
”TRENT’ANNI DI BARAZOKU” è il primo (e unico) libro in lingua italiana sulla formazione di una comunità omosessuale in Giappone. vi svelerà tutti i retroscena, le dinamiche, la fortuna e gli scandali di questa avventura. Un saggio storico di ambito socio-culturale ricco di immagini, testimonianze ed estratti (sia in giapponese che in italiano) dei contenuti della rivista. Contiene un’esclusiva intervista a Itō Bungaku, fondatore di Barazoku con cui ho tuttora il piacere di trascorrere piacevolissimi pomeriggi davanti a una tazza di tè.
Spero di avervi invogliato a scoprirne di più. Chi mi segue già su Instagram lo sa che parlo spesso di cultura LGBT giapponese. Questo testo ne racchiude l’essenza e le radici.
Buona lettura… e se vi andrà attendo le vostre recensioni!
L’importanza del matrimonio nella società giapponese
Come molte altre culture nel mondo, il Giappone riserva un ruolo assai importante alla continuazione della linea genealogica di derivazione maschile. Seppur con le dovute eccezioni e considerando i massicci mutamenti a cui la struttura tradizionale della società e della famiglia giapponese è andata incontro dal dopoguerra in poi, tutt’oggi gli studiosi di sociologia concordano nel riconoscere grande importanza al concetto di “primogenito maschio” e “continuità lineare della famiglia”. In questo contesto culturale l’importanza del matrimonio gioca un ruolo fondamentale e, inevitabilmente, rappresenta per gli omosessuali giapponesi un ostacolo arduo da superare o aggirare. Una dinamica a cui soccombere in mancanza di altre opzioni al di fuori del coming out pubblico o di altre soluzioni ben più drastiche quali anche il suicidio. Da qui l’esigenza di torvare una scappatoia, nei matrimoni di facciata.
Attualmente il Giappone si sta aprendo a stili di vita più diversificati, e la singletudine, così come l’omosessualità, stanno diventando scelte sempre più comuni e accettate anche a livello sociale. Tuttavia, fino a tempi recentissimi, una buona fetta della popolazione omosessuale avrebbe abbracciato l’alternativa dei matrimoni di facciata pur di seguire alla lettera il copione. Cedere alle obbligazioni sociali e optare per i matrimoni etero-normativo di facciata equivale a sofferenza. D’altronde, non sposarsi affatto equivarrebbe a infrangere una serie di responsabilità sociali nei confronti dei propri genitori e della società in senso ampio, che con ogni probabilità avrebbero potuto condurre all’isolamento dell’individuo in società. In alcune aree del Paese, questa scelta è ancora praticata a tutt’oggi.
Una fitta rete di norme sociali uniformanti
La società giapponese non è particolarmente nota per gli atti di violenza fisica. Se di “violenza” si può parlare, non è da intendersi nella forma di un’aggressione fisica bensì in una più sottile forma psicologica. La società in Giappone impone agli individui rigidi schemi comportamentali costituiti da doveri e obblighi nei confronti dell’Altro. Queste obbligazioni si intrecciano vicendevolmente in una rete fitta di relazioni particolarmente vincolate e vincolanti, e chi non fosse in grado di rispondere alle aspettative potrebbe pagarne lo scotto con l’esclusione dalla vita sociale attiva. Al fine di mantenere l’armonia della società, lo status quo all’interno del Paese, l’atteggiamento nei confronti dell’omosessualità fino all’inizio degli anni ’80 circa è stato caratterizzato dalla pressocché totale indiffferenza. Una sorta di negazione della sua presenza, che rimaneva ad ogni modo in sordina anche per interesse degli omosessuali stessi.
Per evitare confronti aperti e attriti sul piano dell’ordine pubblico la società sceglie una strategia in base alla quale non sussistono incongruenze. Lo stile di vita “corretto” rimane tale, e altri eventuali stili di vita considerati meno legittimi e “goliardici” devono essere gestiti diversamente. Ci si deve assicurare che l’eventuale incongruenza, il “problema”, rimanga relegato all’interno degli appositi confini ad esso preposti. Questi confini, sia fisici che astratti, sono rappresentati dai quarteri dell’intrattenimento gay come il quartiere di Nichōme a Shinjuku,o dall’immagine sostanzialmente stereotipata dell’omosessualità diffusa dai mezzi di comunicazione.
L’omosessualità negli anni ’70 e i matrimoni di facciata
La posizione predominante nel Giappone degli anni ’70 era quella di un “silenzio assenso” tra le autorità pubbliche, gli organi di censura e i dipartimenti interposti. Di comune accordo facevano del loro meglio per insabbiare la presenza pubblica dell’omosessualità, e addirittura la stessa comunità omosessuale preferiva di gran lunga una situazione di calma apparente in cui poter sfogare le proprie passioni in tranquillità relegandole a una dimensione rigorosamente privata senza dare in alcun modo nell’occhio.
Per tutte queste ragioni, erano e sono tutt’ora parecchi i casi di matrimoni di facciata volti a soddisfare l’immagine di superficie. Anche il desiderio di una famiglia con dei figli contribuì a incentivare questo meccanismo. In alcuni casi gli uomini gay, che si trattasse di un matrimonio combinato o meno, finivano per sposarsi con donne per lo più ignare delle preferenze di questi ultimi. Questa situazione ovviamente finiva per generare insoddisfazione e depressione tanto negli uomini che nelle malcapitate. Molti omosessuali ne erano consapevoli. Per risparmiare quelle donne innocenti da una vita di sofferenza e mediocrità, cercarono di ingegnarsi per trovare una scappatoia.
Barazoku e la rubrica “L’angolo del matrimonio”
La soluzione arrivò grazie all’intervento di Barazoku, la prima rivista del Giappone rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale fondata nel 1971. Sin dai primi anni di vita di Barazokuiniziarono a pervenire presso la casa editrice richieste sia da parte di lettori gay sia di lettrici lesbiche, affinché si potesse entrare in contatto con una persona del sesso opposto. Inscenare matrimoni di facciata avrebbe permesso di adempiere al protocollo imposto dalla società senza tuttavia assumersi il peso di una relazione “reale” che implicasse rapporti sessuali indesiderati e una forzata affettività. In questo modo la Tribù delle Rose avrebbe potuto salvare le apparenze e al tempo stesso condurre una vita semi-libera evitando di coinvolgere individui innocenti. Fu così che nel 1981 si inaugurò sulle pagine di Barazoku il kekkon kōnā 結婚コーナー (L’angolo del matrimonio.
Alcuni degli annunci che si leggono nel kekkon kōnā del numero di aprile del 1981:
Da un po’ di tempo sono afflitto dalla questione del matrimonio. Se qualcuno mi comprende, se qualche ragazza è in difficoltà per lo stesso problema o se avete un’amica del genere, per favore scrivetemi. Che ne dici di impegnarci e costruire, noi due, una famiglia solare in cui si possa parlare liberamente di qualsiasi argomento? 174 x 67, sono un libero professionista di 32 anni, solare e dotato di senso dell’umorismo.
Ōsaka, Moriguchi – Matrimonio
Il Pride Month sta per giungere al termine, ma continuate a seguirmi per tanti altri spaccati di cultura LGBT in Giappone. Inoltre vi annuncio che alla fine di giugno, con la conclusione di questo mini progetto, ci sarà una sorpresa per voi (spero gradita!).
Questione di comunicazione: i giapponesi e l’amore
Ogni persona è diversa, e ogni relazione è a sé. Detto ciò, alla luce delle esperienze accumulate in quasi dieci anni in Giappone, ho deciso di parlare un po’ del binomio giapponesi e amore e di alcune situazioni chiave per la comunicazione amorosa. Le riflessioni che seguiranno sui giapponesi e l’amore sono tratte dalla mia esperienza diretta, convalidata in parte anche da situazioni in comune con alcuni cari amici connazionali, nel campo delle relazioni sentimentali interculturali tra italiani e giapponesi.
L’amore in Giappone: comunicare non vuol dire parlare
Sono stato insieme a un ragazzo giapponese per quasi cinque anni, e non nascondo che questa è stata anche una delle ragioni principali per cui illo tempore decisi di trasferirmi. Poi le cose sono andate diversamente ma siamo comunque molto legati e io sto ancora qui. Tutto a posto. Tra l’altro, se volete farvi due risate con una carrellata di storie sul tema “fidanzati giapponesi”, vi lascio qui una bella intervista doppia in cui io e il mio amico Giordano raccontiamo un po’ com’è la vita quotidiana insieme a un partner giapponese (ex, nel mio caso). Disclaimer: a prescindere dalla mia esperienza personale, in questo articolo non parlerò di situazioni specifiche alla comunità LGBT bensì di comportamenti culturali che sono facilmente riscontrabili in qualsiasi contesto in cui ci siano giapponesi e una storia d’amore.
La consistenza corporea dell’aria
Una questione piuttosto urgente, da comprendere il prima possibile per interagire in maniera costruttiva con i giapponesi su tutti i livelli, è quella relativa al “leggere tra le righe”. I giapponesi sono appassionati di lettura: leggono in treno, in palestra, al konbini, per strada, ovunque. Ma i libri non sono l’unica cosa che amano leggere. Per sopravvivere in Giappone bisogna imparare a leggere l’aria (空気を読む).
Questo di “leggere l’aria” è un concetto tipico della cultura giapponese, che è una cultura ad alto (altissimo) contesto. In Giappone le informazioni utili per una efficace comunicazione e una comprensione reciproca tra parlanti non vengono costantemente esplicitate, e in molti casi non se ne fa riferimento diretto. Bensì, ci si aspetta che il proprio interlocutore colga i segni para-verbali e collaterali allo scambio linguistico, muovendosi in maniera fluida navigando attraverso correnti invisibili all’interno della conversazione. È fondamentale quindi analizzare sempre il contesto, o meglio: leggere l’aria per l’appunto. L’aria, quella cosa invisibile ma perennemente presente senza la quale nulla esisterebbe. Il contesto è determinato dalla posizione sociale dei parlanti, le eventuali gerarchie, e così via, e ci guida per stabilire come rapportarci armoniosamente con gli altri, che si tratti di un gruppo o un singolo interlocutore.
Leggere l’aria, sempre. La raffinatezza del non detto
All’interno di una relazione, che è un microcosmo a sé, bisogna fare lo stesso. Nel mio caso, da bravo gaijin, questo ostacolo della comunicazione ha rappresentato forse la barriera culturale più consistente. Si dice che in una relazione la comunicazione sia tutto, ma “comunicare” non significa necessariamente parlare, prendere delle iniziative o fare qualcosa in maniera proattiva. In Giappone la comunicazione è sospesa nell’aria, ci si aspetta che l’altro capisca i nostri bisogni senza doverli elencare esplicitamente. I giapponesi, in amore, si aspettano che il nostro interlocutore comprenda le loro esigenze e i i loro desideri, senza doverli necessariamente mettere nella condizione di spiegare nero su bianco.
L’infantile aridità dell’esplicito
Le spiegazioni svelano tutto in maniera cruda, quasi brutale, e lasciano ben poco spazio all’abilità di comprendere. Spiegare all’altro il perché vorremmo che si comportasse in una determinata maniera equivarrebbe in parte anche ad ammettere di avere dei bisogni, delle esigenze. Sarebbe un po’ come se, parlandone all’altra persona, volessimo imporre loro i nostri desideri, facessimo i “capricci”. Fare una richiesta in questi termini a qualcun altro è un comportamento non contemplato dall’etichetta e dal sentire giapponesi. È un atteggiamento discutibile, giudicato decisamente infantile. È infantile fare delle richieste agli altri che possano recare anche il più minimo incomodo, ed è altrettanto fuori luogo pressare qualcuno perché verbalizzi esplicitamente i propri sentimenti, forzando la formulazione di una richiesta nei nostri confronti.
Comportarsi in questo modo, ossia non saper leggere l’aria, è un fatto molto grave in Giappone. Chi si comporta così è “bollato” come personaggio incomodo, difficile da avere intorno e da “gestire” perché minaccia l’armonia egli equilibri, e sicuramente infantile. Va da sé che comportamenti del genere sono tipici degli stranieri (occidentali), i quali, al contrario, si aspettano generalmente da qualsiasi rapporto estrema chiarezza verbale circa i pensieri dell’altro.
Mi ricordo cosa mi disse una volta il mio ex:
“Perché vuoi sapere sempre la ragione dei miei sentimenti? Ti dovrebbe bastare il fatto che quella cosa mi ha fatto stare male”.
(Ex di Loris)
È difficile per il nostro cervello occidentale accettare semplicemente lo stato delle cose. Con il senno di poi, oggi, capisco. È anche vero che adesso che ho imparato a leggere l’aria non penso mi ritroverei nelle stesse situazioni che in passato, ma all’epoca ero poco più di un gaijin che non sa dove iniziare per leggere l’aria.
Uno “scusa” tira l’altro…
Un’altra lezione che ho imparato, e che ugualmente mi ha aiutato tanto negli anni a seguire nell’approccio alla popolazione giapponese, è la modalità con cui scusarsi. Si tratta di un discorso molto complesso che mi piacerebbe affrontare nel dettaglio linguistico la prossima volta. In breve possiamo dire che la parola “scusa” non si limita a indicare l’ammissione di una colpa o di un errore. Non dice “scusa” solo chi ha sbagliato, in primo luogo perché nella maggior parte dei casi la verità sta sempre da qualche parte nel mezzo. Dopo una discussione ci si scambiano le scuse a vicenda, ma non si intende dire “è colpa mia”. Significa: ti chiedo scusa per averti fatto stare male. Anche qui, il mio cervello occidentale mi ha dato delle belle grane durante i primissimi anni in Giappone, anche nel contesto della mia relazione di coppia. Un’altra pillola di saggezza del mio ex:
“Dovresti chiedere scusa. Dopo una discussione ci si scusa entrambi perché, a prescindere da chi abbia torto e chi ragione, abbiamo fatto entrambi stare male l’altro. “Scusa” è la parola con cui inizia la conversazione”
(Ex di Loris)
Un approccio ibrido tra impostazioni culturali opposte
Anche qui aveva ragione. O meglio, io ho deciso che mi piaceva il ragionamento e ne ho abbracciato la filosofia. Sia chiaro che non voglio fare l’elogio di determinati comportamenti culturali in maniera acritica. Sono convinto che sia corretto iniziare la conversazione con queste scuse reciproche, cosa che prima di trasferirmi in Giappone non avrei mai neanche minimamento immaginato. Ma poi il problema, ossia il motivo della discussione, penso vada un minimo affrontato e analizzato. Purtroppo, in molti casi, le discussioni tra giapponesi terminano in un confuso sou desu ne, muzukashii desu ne (“eh già, sono situazioni difficili”) che vuol dire tutto e niente al tempo stesso. Forse alla fine questo si riconduce al punto di cui sopra: accettare senza questionare. Seppur oggi comprendo, non sono sempre disposto ad accettare questa impostazione, soprattutto nel privato. Il mio cervello è ormai ibrido, ma la mia metà occidentale razionale è ancora pulsante.
Un ingresso privilegiato alla comprensione
Non voglio dire che fidanzarsi con un cittadino giapponese sia l’unico modo per comprendere a fondo il Giappone, ma è indubbio che condividere spazio e tempo con l’intensità e la prossimità tipiche di una coppia, garantisce un accesso preferenziale alle dinamiche più nascoste e inarrivabili della cultura giapponese. Io, molto di quello che attualmente so sul Giappone e sulla sua cultura l’ho imparato un po’ per osmosi, un po’ per gioco, ma anche discutendo, incazzandomi e anche solo osservando silenziosamente intorno a me durante quegli anni di relazione. I miei primi anni di vita qui.
Shinjuku Nichome, da insignificante agglomerato a centro della vita gay
Il quartiere gay più grande di Tokyo, e per estensione di tutto il Giappone, è il vivace blocco di Shinjuku Nichome, conosciuto anche solamente come “Nicho” dai frequentatori abituali. Shinjuku Nichome è situato a pochi passi dall’uscita Est della stazione JR di Shinjuku, nei pressi dell’altrettanto noto quartiere dell’intrattenimento notturno (e del business sotterraneo a luci rosse) di Kabukicho. Si stima che il quartiere gay di Shinjuku Nichome, con la sua superficie di circa 105,238 m2, ospiti attualmente tra i 200 e i 300 esercizi a tematica LGBT tra bar, discopub, club, saune, negozi, associazioni, ecc.
Quando Shinjuku non esisteva ancora
La storia di questo quartiere è estremamente interessante e avventurosa. Per comprendere le origini e l’aspetto attuale di Shinjuku Nichome come hub della cultura gay, è necessario viaggiare nel tempo e fare un salto indietro di diversi secoli sino all’epoca Edo (1603-1867). Durante il periodo Edo il Paese (o meglio, la parte centrale dell’isola di Honshu in cui si trovavano le principali città) era attraversato da cinque arterie stradali che costituivano il sistema del Gokaido (五街道). Il Gokaido, il principale sistema terrestre viario di epoca Edo, collegava la città dello shogun ai punti principali dell’isola di Honshu, primo su tutti la città di Kyoto dove risiedeva l’imperatore.
Le città “postali” di epoca Edo
Nel 1625, su richiesta dei viandanti in viaggio lungo la Koshu Kaido, una delle cinque arterie, che conduceva alla attuale prefettura di Yamanashi, venne stabilita una ulteriore mini stazione di riposo per rifocillarsi tra una tappa e l’altra del viaggio, in corrispondenza della zona dove attualmente sorge Shinjuku Nichome. Ai margini di queste cinque arterie stradali sorgevano diverse cittadine “postali” (shukuba), ossia grandi o piccoli agglomerati provvisti quanto meno dei servizi e le infrastrutture basilari utili ai viaggiatori per rifocillarsi, riposarsi, acquistare beni di prima necessità, ecc. L’area di Shinjuku, che all’epoca non aveva ancora un nome, non qualificava come una “città postale” per le sue esigue dimensioni, ma a seguito delle richieste dei viaggiatori nei pressi del minuscolo raggruppamento di case fu eretto un tempio, e l’area ribattezzata Naito Shinjuku(内藤新宿).
Qui, oltre alle locande e le taverne, si dice che presto sorsero anche delle case apposite per la prostituzione e l’intrattenimento dei viandanti.
Lo sviluppo di Tokyo Ovest in epoca Meiji
La prima apparizione di una nomenclatura come la conosciamo attualmente apparve all’inizio del Novecento, quando nel 1903 venne inaugurata la stazione di Shinjuku Nichome sulla linea di tram che attraversava la parte ovest di Tokyo. Per tutto il periodo bellico Il carattere “erotico” della zona continuava ad esistere e si decise di spostare in quella zona, ancora relativamente nuova e non sufficientemente sviluppata né popolata, parte del business legato alla prostituzione dai principali quartieri di piacere della città. Uno degli intenti era sicuramente quello di incrementare il volume di persone che gravitavano nella zona occidentale di Tokyo. Questo articolo racconta molto bene lo sviluppo di Shinjuku come centro economico di Tokyo e del Paese.
Nel 1921 il trasferimento di parte delle strutture per l’intrattenimento e il business a luci rosse fu completato, ma un grande incendio devastò la zona rendendola inagibile. Comincio immediatamente l’opera di ricostruzione e due anni dopo le strutture erano di nuovo pronte per l’utilizzo. Proprio in quell’anno, nel 1923, il Grande Terremoto del Kanto colpì la capitale e rase al suolo moltissimi edifici e recò ingenti danni. Yoshiwara, il principale quartiere di piacere, non fu risparmiato e il business della prostituzione andò incontro a un crollo severo. Miracolosamente la zona di Shinjuku non registrò danni troppo gravi, e questo favorì la transizione del business dalla zona est di Tokyo alle emergente ovest.
Storico hub della prostituzione
Fino alle fine degli anni ‘50 Shinjuku Nichome era in assoluto uno dei quartiere più prominenti di Tokyo per il business della prostituzione (eterosessuale). Poi accadde qualcosa che segnò le sorti dello sviluppo futuro di questo regno. Nel 1958, infatti, il Giappone mise al bando la prostituzione, che da quel momento diventava illegale. Nel giro di pochi mesi la maggior parte dei locali e degli esercizi adibiti alla prostituzione dovette chiudere i battenti, e trasferirsi altrove sparpagliandosi per la città. Il quartiere di Shinjuku Nichōme, tutt’a un tratto, era spopolato.
La svolta degli anni ’50 e la virata di Shinjuku Nichome in chiave gay
Fu un uomo avanguardista e intraprendente rispondente al nome di Mitsuyasu Maeda a stabilire il destino di Nichōme. Maeda gestiva nella zona già da alcuni anni una normale sala da tè, il “Ran’ya”(蘭屋), che decise di convertire in locale per omosessuali. Ovviamente all’epoca, considerando il pesante pregiudizio che stigmatizzava l’omosessualità, non si pronunciava, non si scriveva, non si usava in nessuna forma quel vocabolo. I clienti e i gestitori agivano con un codice basato sul silenzio assenso.
Con la messa al bando della prostituzione e lo svuotamento dei locali di Nichome, Maeda acquistò gran parte del terreno della zona, e investì nella proliferazione di business a tematica gay, attraendo dalle zone storiche di Ueno e Asakusa una gran parte dei bar per omosessuali. Il fatto che Maeda fosse originario di Okinawa spiega anche perché, tutt’ora, a Nichōme si trovano parecchi ristoranti di cucina di Okinawa e Amami. Inoltre, all’epoca, non di rado lo staff dei bar gay offriva servizi di sesso a pagamento ai clienti qualora lo richiedessero. Questa modalità di business era tutto sommato in linea con il carattere originario di Nichōme, come era stato fino agli anni precedenti.
Il passa parola sortì effetto. Nel giro di una decina di anni, alla fine degli anni ’60, il quartiere di Shinjuku Nichome era ormai popolato per la quasi totalità da bar, club, negozi, sale da tè per omosessuali. Tuttavia non esisteva ancora un senso di comunità, infatti la vita notturna dei bar era vissuta in completa clandestinità. I clienti in procinto di lasciare il bar chiedevano ai camerieri di affacciarsi prima fuori a controllare che non stesse passando nessuno.
Barazoku, la prima rivista gay del Giappone
È in questo clima di grande fermento che nasce Barazoku, la prima rivista del Giappone a tematica gay rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale. Sin dalla sua fondazione nel 1971, Barazoku contribuirà in maniera inestimabile alla nascita del primo vero e proprio nucleo di comunità omosessuale giapponese. L’incontro virtuale dei lettori prima sulle pagine della rivista e poi concretamente nei locali appositi fu il punto di partenza. I trent’anni di vita di Barazoku raccontano la nascita e l’affermazione della Tribù delle Rose, l’influenza che la rivista ha esercitato sullo sviluppo di Nichome e viceversa rappresentando il punto di partenza della comunità e delle moderna cultura gay giapponese.
…E io, che non potevo farmi scappare l’occasione, ci ho scritto su un libro. Se vi interessa il tema, non perdete i prossimi aggiornamenti! A presto con altre pillole di storia LGBT e molte altre info su Barazoku e la sua Tribù delle Rose.
Integrazione in Giappone di uno straniero occidentale.
L’integrazione di uno straniero in Giappone non è un gioco da ragazzi. Tanto per cominciare il Giappone è un arcipelago, e come sappiamo anche in terra nostrana, gli isolani sono un po’ “a sé”. E ve lo dice uno che ha il 25% di DNA sardo. Chi emigra è straniero, e lo sarà sempre, ovunque, al di fuori dei propri confini nazionali. Tuttavia, per noi occidentali, essere straniero in Giappone non ha lo stesso significato che esserlo “a casa” in Occidente. Cercherò di raccontare uno spaccato di realtà per spiegare le difficoltà di integrazione di uno straniero occidentale in Giappone.
Chi sta fuori e chi sta dentro
Premessa. Il Giappone è rimasto chiuso ai contatti con qualsiasi paese straniero per un periodo di tempo di 214 anni (1639-1853) durante la politica del Sakoku, letteralmente “Paese chiuso”, in epoca Tokugawa. A parte rarissime eccezioni a fini principalmente economici e commerciali, a nessuno straniero era concesso calpestare il suolo giapponese. Quando pensiamo al Giappone, e quando ci scontriamo con la realtà di cui sto per raccontarvi, è bene tenere a mente che il Giappone ha riaperto le frontiere da poco più di 150 anni, dopo un periodo di chiusura ermetica di 214.
Al di là di tutto il discorso imperversante in Giappone sulla presunta purezza e unicità della razza giapponese, questa informazione ci è utile a capire che per i giapponesi esiste una nettissima distinzione tra il dentro uchi e il fuori soto. Questa separazione avviene sia in termini geografici, in quanto è un insieme di isole e pertanto circondato dal mare, sia in termini culturali, perché appunto il Giappone, fino a tempi incredibilmente recenti, era solo dei giapponesi.
Integrazione e Occidentali: i “veri” gaijin e turisti forever
Questa premessa serve a comprendere almeno in parte il background del discorso, ma ciò non risparmia comunque noi residenti di lunga data da una buona dose di situazioni spiacevoli. Vivo a Tokyo da quasi dieci anni e a mio avviso ho seguito un percorso positivo di integrazione qui in Giappone. Parlo fluentemente la lingua e ne conosco la cultura. Ho amici del posto, ho frequentato l’università qui, lavorato per aziende giapponesi, sperimentato dall’interno le festività e ricorrenze principali. E ancora mi tocca ricevere lo sguardo (e in molti casi, il trattamento!) da “gaijin turista”.
Siamo tutti gaijin (stranieri), è chiaro. Ma ci sono stranieri turisti, e stranieri residenti. Stranieri che sperimentano, e stranieri che hanno già sperimentato. Ovviamente chi mi conosce non mi riserva il trattamento da “matricola” sprovveduta. Il problema è scavalcare l’invisibile barriera del pregiudizio visivo dell’aspetto fisico, che è radicato nella mentalità della maggior parte dei giapponesi. La sbrigatività di arrivare a una conclusione, ricorrendo a un set di categorie limitate in cui incasellare i fenomeni e le persone per semplificare la complessità della realtà. Questo è il meccanismo dello stereotipo che non di rado sfocia in pregiudizio (ovviamente questo non riguarda solo il popolo giapponese).
Mi spiego meglio. Io sono bianco, palesemente occidentale, ho anche gli occhi azzurri quindi figuratevi. Al cospetto di un qualsiasi passante io sono un gaijin turista. Non solo, sono americano. E ovviamente non so parlare giapponese. Se per caso dicessi di vivere in Giappone, allora mi verrebbe chiesto se sono un insegnante di inglese (sempre americano). Inizialmente pensavo si trattasse di un caso limite, una battuta, ma la situazione si è andata a ripetere infinite volte negli anni e ho capito. Da una parte questo è il risultato di una situazione concreta e reale, in cui la maggior parte dei bianchi in Giappone, durante gli anni ’80 e ’90 erano americani arrivati in Giappone per arricchirsi con i soldi della bubble economy insegnando inglese. Nessuno parlava un “H” di inglese in Giappone in quegli anni, e ci si arricchiva veramente lavorando come insegnanti.
Lasciamo perdere un attimo la conoscenza della lingua, la flessibilità mentale, l’accettazione della rinunciare del “sé” ecc. Il punto qui è il pregiudizio, ossia la decisione aprioristica di chi sono e cosa so fare, ancora prima che io apra bocca. Ogni volta che entro in un negozio, un ristorante o simili, sento su di me lo sguardo esitante degli impiegati che non sanno come approcciarmi. Poi arrivano con un timido “harooo…” e io li rassicuro che possono mettersi l’anima in pace e parlare giapponese. La maggior parte della gente a quel punto si distende, spesso si complimenta (anche qua ci sarebbe da aprire una parentesi, ma facciamo la prossima volta). Ma alcune volte l’interlocutore non afferra il messaggio e continua a rapportarsi con me con sorrisetti imbarazzati, scandendo lentamente, mischiando vocaboli inglesi alle frasi in un pasticcio incomprensibile. Questa cosa, non vi nascondo, mi avvilisce tuttora.
Capisco se qualcuno bravino in inglese volesse approfittarne per fare un po’ di pratica, ma non essendo il caso non ne vedo il senso. Oggi stesso, per dire, sono andato al ristorante e in automatico mi sono beccato il menù in inglese. Poi al konbini e, dopo aver risposo in giapponese alla tizia alla cassa, lei continuava a parlarmi in un inglese incomprensibile. Al che le ho ribadito che poteva parlare in giapponese ma non c’è stato verso. Ci ho rinunciato. Ogni volta che distribuiscono volantini in giro, a me tocca sempre la versione (scarna e discutibile) in inglese. Succede all’ordine del giorno. Mi rendo conto che questo approccio sia di aiuto ai turisti, che incontrano delle difficoltà non indifferenti in Giappone, ma bisogna mettersi nei panni di chi turista non è e lotta per l’integrazione.
Le mille sfumature della discriminazione
Questo dello stereotipo fisico che conduce a pregiudizio era un esempio lampante, perché ovviamente la stessa cosa non succede agli stranieri asiatici, che “passano” per giapponesi. Interessante è notare che il termine gaijin, nonostante significhi “straniero” a volte è usato nell’unica accezione di “occidentale”. La discriminazione nei confronti di chi non è giapponese arriva molto più in profondo. Esiste un tipo di discriminazione di cui sono vittime gli occidentali, un’altra prettamente asiatica. Ha tante facce, quella della violenza fisica, quella della violenza verbale, e poi ce n’è una ancora più subdola, che risiede in tanti piccoli aspetti della quotidianità… e soprattutto nelle leggi di un Paese.
Affittare un appartamento è una di quelle situazioni in cui ti rendi conto che la nazionalità è tutto. C’è diffidenza ad affittare a uno straniero, seppur referenziato, perché i gaijin fanno rumore, sono inaffidabili, non parlano giapponese, non hanno famigliari vicino da fargli da garante. In agenzia mi è stato detto più di una volta: “Mi dispiace, abbiamo finito gli appartamenti per stranieri”. Comportamenti errati esistono tanto da parte degli stranieri quanto dei cittadini giapponesi, ma invece di giudicare caso per caso in base a criteri oggettivi quali lo stipendio, lettere di raccomandazione, ecc, il pregiudizio legato solamente alla nazionalità è il primo ostacolo che uno straniero incontra, ed quello più invalicabile.
Sempre per rimanere in termini legali, ci sarebbe da menzionare anche il discorso relativo allo straniero che volesse fondare un’azienda. Gli stranieri in possesso di un visto di soggiorno permanente hanno pressoché pari diritti di un cittadino giapponese davanti la legge (eccetto il diritto di voto e forse qualcos’altro). Per loro (e ovviamente per i giapponesi) aprire un’azienda richiede poche ore e 1 yen di capitale iniziale. Noialtri, però, che viviamo in Giappone in qualità residenti di lungo termine e in possesso di un “normale” visto lavorativo, che lavoriamo qui, produciamo reddito, usufruiamo dei servizi locali e ovviamente paghiamo le tasse, siamo soggetti a un’infinità di restrizione e condizioni che non la rendono affatto un’impresa facile, e le cifre di partenza hanno entità ben diverse.
Cittadini part-time
Produciamo reddito, paghiamo le pensioni alla popolazione giapponese che invecchia inesorabilmente, ma poi siamo considerati cittadini “part-time”. Ultimo esempio lampante: la gestione dell’emergenza COVID-19 di queste settimane. Per contenere l’espansione dei contagi, a partire dal 3 Aprile il Giappone ha implementato una severissima politica di ingressi alla frontiera. Questo è avvenuto certamente in tutto il mondo, ma nella maggior parte dei paesi industrializzati (e comunque nei paesi del G7), si è tenuto conto della residenza abituale dei cittadini stranieri nell’applicare tali restrizioni.
Ad oggi, noi italiani residenti in Giappone, non possiamo lasciare il paese perché al rientro ci verrebbe vietato l’ingresso. Non importa con che visto risiedi, non conta se sei un residente permanente che ha trascorso gli ultimi 20 anni di vita fisso nel suo appartamento nella periferia del Kyushu. Non conta se hai coniuge giapponese e hai anche dei figli qui. Sei comunque gaijin, in più nella fattispecie sei italiano, e quindi se decidi di andare a trovare la tua famiglia al ritorno rimani alla frontiera. Mentre un giapponese, se venisse in Italia, ovviamente potrebbe rientrare cavandosela con un esame PCR e due settimane di quarantena auto-imposta. Ignorare il concetto di residenza abituale di un cittadino straniero, significa essere ciechi sulle dinamiche del contagio e stabilire un criterio di validità basato solo sul passaporto.
A questo proposito, è stata indetta una petizione su CHANGE.ORG per abolire il criterio di nazionalià e permettere agli stranieri residenti in Giappone di uscire e rientrare alle stesse condizioni dei cittadini giapponesi. Se la causa vi sta a cuore, per favore dategli un’occhiata!
Sospendere il giudizio di fronte alla complessità
Nel frattempo le cose sono radicalmente cambiate, e non solo ci sono persone di ogni nazionalità che vivono e lavorano in Giappone, e che parlano anche bene la lingua, ma questo non è sufficiente perché cambiare la mentalità della gente non è un processo immediato. Ad oggi, ai fini dell’integrazione in Giappone, l’aspetto fisico conta ancora parecchio. Una buona parte dei cinesi e coreani che vivono in pianta stabile in Giappone, ad esempio, riescono a “mimetizzarsi”. Ma qui non sto inneggiando a una “piallata” delle differenze. L’obiettivo dell’integrazione non dovrebbe essere quello di dissolvere le peculiarità di ciascuno assimilandosi al contesto culturale dominante, bensì convivere con il diverso senza idee preconcette circa quello che fa o che sa fare, chi è o da dove viene.
Io sono un cittadino italiano residente in Giappone in pianta stabile, gaijin ma integrato. Non sono un turista. Vorrei che nella mente del passante di turno sorgessero le seguenti domande: “Di passaggio? Residente? Parla giapponese? Forse no? Chissà da dove viene? È nato qui?”. Penso a tutti quei bambini nati in Giappone da genitori entrambi stranieri, magari bianchi o neri, o del sud-est asiatico. Questi bambini sono “diversi” dai loro coetanei giapponesi di sette generazioni, ma giapponesi tanto quanto loro. Tuttavia la concezione giapponese della “razza” basata sul sangue, non permette l’automatica integrazione in Giappone e subiscono una discriminazione sia verbale che culturale e legislativa. Questo è quello che, purtroppo, succede tuttora anche in Italia, come in tutti i paesi dove vige lo ius sanguinis.
Bisogna aggiungere che ci sono anche delle situazioni di comodo che da occidentale si incontrano in Giappone, e di questo vorrei parlare meglio in un’altra occasione. Sto parlando del cosiddetto “privilegio bianco”. Dei privilegi nessuno si lamenta, chiaro, ma anche quelli contribuisciono ad aumentare la distanza tra “noi” e “loro”, e rappresentano comunque un ostacolo all’integrazione in Giappone.
Insomma…
Tutto questo per dire che, nel nostro piccolo o grande che sia, la discriminazione si manifesta in tante leggere sfumature e può riguardare davvero tutti. Chi ha sperimentato la sensazione di uscire anche solo per un po’ dalla propria comfort zone lo sa bene. La realtà del mondo in cui viviamo è estremamente complessa, e non si può ridurre a sbrigativi concetti o etichette. C’è bisogno di più sensibilità, più apertura mentale e meno giudizi “a monte”. C’è bisogno di fare del nostro meglio per mettersi nei panni altrui, anche quando i panni sono di tutt’altra taglia.
Mi riallaccio direttamente all’articolo di qualche giorno fa sul discorso dell’armonia del gruppo. Ci sono milioni di altre situazioni indicative di quanto il concetto di armonia collettiva sia importante nella cultura giapponese e influenzi le decisioni di gruppo. Ad esempio, il semplice processo di “sciogliere la seduta” e tornare a casa al termine di una qualsiasi attività svolta in gruppo richiede importanti accorgimenti. Che si tratti di un compito scolastico, una gita, un allenamento, una riunione, lo smembramento della compagine non è immediato subito dopo la conclusione dell’attività. A questo serve l’ipponjime.
Ad esempio: io gioco a pallavolo qui a Tokyo. Adesso faccio parte di un gruppo misto stranieri e giapponesi e la storia è diversa, ma all’epoca ero iscritto a un circolo serale locale per lavoratori. Come se non bastasse ero l’unico straniero. Ci si riuniva una volta a settimana per allenarsi e poi occasionalmente si facevano delle partite nel fine settimana. Al termine degli allenamenti non esiste che ci si cambi, si saluti gli altri e “arrivederci e grazie tutti a casa” nonostante l’orario tardo. Bisogna prima aspettare che tuttii membri della squadra siano pronti, poi ci si siede in cerchio e il responsabile del circolo fa un breve saluto ringraziando tutti della partecipazione e annunciando eventuali comunicazioni sui prossimi appuntamenti (partite, calendario degli allenamenti, ritiri fuori città, feste). Nel caso ci fossero nuovi membri viene chiesto loro di presentarsi brevemente. Finito il saluto ci si alza e ci si dirige verso l’uscita, piano piano e tutti insieme.
Soluzioni tortuose a “problemi” (in)evitabili
Mi ricordo che una volta, dopo una partita, ci siamo cambiati e abbiamo aspettato nell’atrio della palestra che tutti uscissero. Siamo rimasti lì… ad aspettare. All’epoca non mi era ben chiaro che cosa stessimo aspettando. Solo una cosa era chiara, ossia il fatto che nessuno potevaalzarsi e congedarsi dicendo “bon, ci si vede alla prossima!”. Come anche per il discorso della scelta del ristorante, anche qui è necessario un lavorio infinitesimale di minuscoli passettini in cui una persona si muove impercettibilmente verso l’uscita. Quella a fianco farà lo stesso trascinando a catena tutto il resto del gruppo senza che apparentemente nessuno abbia esposto (o meglio, imposto, se vogliamo) la propria volontà al gruppo. Sono convinto che anche ai giapponesi pesi un po’ questa complicazione delle cose. Ma è così che funziona e per loro non solo è la normalità, ma è anche la modalità migliore per preservare l’equilibrio e l’armonia. Creata una complicanza, i giapponesi sono maestri nell’inventare una soluzione ancora più complessa. Per ovviare al fatto che “ok l’armonia del gruppo, ma bisogna pure tornare a casa a ‘na certa”, i giapponesi si sono inventati uno strepitoso giochino: si chiama ipponjime.
Questo stratagemma consiste nel riunire i membri che hanno preso parte a una qualsiasi attività di gruppo e di radunarli in cerchio. Quindi il coordinatore del gruppo, il responsabile dell’attività o il senpai (persona più grande, anche se solo di un giorno, quindi con maggior esperienza a cui si deve rispetto) dirà due parole di ringraziamento a tutti e di commiato. Terminerà il suo discorso dicendo: “Bene, facciamo ipponjime ”, e tutti si metteranno a mani giunte come in preghiera e, contando mentalmente see-no (“tre, due, uno, via!”) batteranno tutti quanti le mani all’unisono una volta. E’ lo ipponjime, ossia la “chiusura con un colpo”. Finalmente l’attività può ritenersi ufficialmente conclusa e tutti quanti sono autorizzati a sentirsi liberi di lasciare il campo di battaglia, senza recare sulle proprie spalle il peso della decisione.
L’unità di misura non siamo noi
Defilarsi prima della fine ufficialedi una qualsiasi attività è considerata una mancanza di rispetto in Giappone e ancora di più lo è il fatto di esprimere sempre e comunque le proprie opinioni, manifestare i propri desideri in qualsiasi situazione o ancora prendere a tutti i costi iniziative di sorta. È un comportamento percepito come infantile. E’ una rinuncia amara per un occidentale, nato e cresciuto nell’esaltazione della libertà di espressione, il valore aggiunto di un’opinione e di una presa di posizione. Per quanto tali principi rechino in sé innegabili pregi, non è assolutamente detto che siano universali. La chiave di interpretazione della società giapponese è esterna all’individuo, si trova al di fuori di noi stessi. Esula dalla notra istanza personale, il nostro ko, in favore di un armonia più grande. E’ il gruppo a formare l’unità di misura in Giappone: le persone sedute nello stesso vagone in treno, la squadra di pallavolo, la scuola, l’azienda, la città e la comunità tutta.
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