Qualche giorno fa è uscito per Dynit il nuovo titolo che sto traducendo. Il castello invisibile (かがみの孤城, lett. “Il castello solitario nello specchio”) è un manga disegnato da Tomo Taketomi sulla base dell’omonimo romanzo di Mizuki Tsujimura. Il castello invisibile è una storia delicata e toccante sul tema sempre attuale del bullismo, e riguarda tutti noi da vicino, sia chi riveste il ruolo di vittima, sia chi quello di carnefice.
Di che parla “Il castello invisibile”?
Kokoro è una ragazzina delle medie come tante altre, ma a differenza della maggior parte dei suoi coetanei, lei non riesce più ad andare a scuola. Non è che non voglia andarci, anzi. Il problema è che lei proprio non può. Senza che riesca a comprenderne realmente le ragioni, Kokoro si ritrova vittima di una dinamica tristemente comune all’adolescenza. Viene presa di mira dal gruppetto di bulli nella sua classe e nel giro di pochi giorni si ritrova isolata dal resto dei compagni. È la legge del branco, e il branco sceglie sempre di schierarsi dalla parte al “capo”.
Inizia l’avventura
Risucchiata nel silenzio della propria casa tra la vergogna e il terrore, Kokoro trascorre il tempo colpevolizzandosi e chiedendosi “perché”. Finché un giorno lo specchio della sua stanza inizia a brillare di una luca accecante e la ragazzina, attratta da quel bagliore, ne attraversa la superficie trovandosi catapultata in un luogo magico. È così che inizia la sua avventura nel castello invisibile al di là dello specchio, in cerca di chiavi magiche e stanze dei desideri. Ma Kokoro non è sola: al castello incontra altri cinque Cappucetti Rossi, come lei vittime del branco, e la Signora Lupo, sibillina guardiana del castello. Poco alla volta emergono le storie personali dei sei inquilini del castello e le dinamiche che si creano rivelano verità e connessioni inaspettate.
Il castello invisibile diventa ben presto per Kokoro l’unico luogo al mondo in cui poter esistere serenamente. Il suo stesso nome, Kokoro, che giapponese tra le altre cose significa “cuore” ma anche “mente”, è una metafora perfetta per descrivere un malessere che attanaglia il cuore ma scalfisce la mente.
Il castello invisibile tratta tematiche che per certi aspetti sento personalmente vicine, e credo che leggendo quest’opera, tanto nella sua veste originale di romanzo che nella delicatissima versione a fumetti di cui mi sto occupando, in tanti possano sentire le stesse emozioni. Personalmente lo sto amando, e ne consiglierei la lettura a chiunque, anche ai neofiti del genere del manga, per l’attualità dei temi trattati e soprattutto per i toni delicatissimi con cui l’autrice amalgama realtà e fantasia.
È uno di quei manga che se non fosse stato assegnato a me avrei fatto carte false per poter tradurre. Fortuna che invece è andata così, e non ho dovuto corrompere nessuno.
Giuseppe, in arte “Peppe”, è il primo italiano a debuttare come mangaka nella terra dei manga. Oltre a questo grandioso traguardo, a Peppe si deve anche l’alto importantissimo merito di aver portato una ventata di aria fresca all’immagine degli uomini italiani in Giappone. Mingo, il manga di Peppe, dà voce alla frustrazione di quegli italiani che non si riconoscono nello stereotipo diffuso in Giappone del rimorchiatore seriale.
Vi racconto di Mingo, di Peppe e del mio incontro con entrambi. Le storie degli italiani in Giappone sono spesso collegate, e alla fine c’è un po’ di Mingo in ognuno di noi.
Il mio tentativo vano di entrare a “Terrace House”…
Avevo sentito vociferare della possibilità anche per gli stranieri di fare domanda per partecipare al reality show giapponese “Terrace House”. “Terrace House” (TH) è uno show di Netflix Japan che è andato avanti per qualche edizione (al momento è sospeso), e parla di un gruppo di 6 giovani, 3 ragazzi e 3 ragazze, che vive insieme in una casa mega galattica in qualche angolo del Giappone (in genere a Tokyo o dintorni). I sei protagonisti vengono seguiti dalle telecamere condividendo con gli spettatori stralci delle loro vite quotidiane, lavorative e private. I partecipanti decidono liberamente quando abbandonare il programma e al loro posto vengono inseriti nuovi inquilini o inquiline.
L’obiettivo principale dello show, in teoria, sarebbe quello di “trovare l’amore” tra i membri della casa.
Detto ciò, a me di cercare l’amore a TH (visto che poi per “amore” si intende per ora solo quello tra un uomo e una donna) importava francamente meno di zero, ma l’idea di partecipare a quel reality per mostrare al Giappone un modo di essere gaijin, straniero e integrato, diverso dallo stereotipo, stuzzicava molto la mia fantasia. Feci domanda, ma come si può immaginare non ci fu risposta.
…e la sopresa di trovarci Peppe.
E qui arriva il primo “wow”. Ricordo molto chiaramente quella sera di settembre del 2019. Era uscita la nuova puntata di TH – Part 2 Ep. 14: “Just a Moment, Please”. Alla fine, nelle anticipazioni della puntata successiva, lasciarono intravedere di sfuggita qualche fotogramma del nuovo partecipante in arrivo. Un ragazzo che visto di spalle non sembrava giapponese. Strano, pensai. Poi aprì bocca, sempre senza essere inquadrato.
“Mamma, ciao!”, e parlò in italiano.
Rotolai giù dalla sedia.
Giuseppe è un ragazzo abruzzese che vive da qualche anno a Tokyo. Appassionato di Giappone sin da bambino, di anime e di cultura otaku disegna manga dell’età di 16 anni. Dopo aver studiato all’Università di Venezia, è arrivato a Tokyo per coronare il suo sogno. E a giudicare da come stanno andando le cose, direi proprio che ci sta riuscendo.
Peppe è entrato a TH presentandosi come mangaka in erba. Lavorava già presso la mangaka giapponese Keiko Nishi, e preparava i propri lavori mentre accumulava esperienza sul campo. Nella recente intervista su Youtube con Luca Molinaro (@mangaka96), Peppe racconta di come si fosse presentato a Shogakukan, la casa editrice che poi pubblicherà Mingo, con le tavole di Model Monogatari (モデル物語), il primo lavoro oneshot che avesse completato con soddisfazione. Il percorso che portò alla pubblicazione di Mingo richiese ancora molti sforzi e un po’ di tempo. Ma il lavoro di Peppe è del tutto unico nel panorama del manga giapponese e meritava di vedere la luce, in un modo o nell’altro.
Questo il titolo del suo fumetto di esordio. Mingo è un ragazzo italiano di ventidue anni che lascia l’Italia per inseguire e coronare il suo sogno di vivere in Giappone. Arriva a Tokyo e lì incontra e si scontra con una realtà che in parte conferma il suo immaginario, in parte gli fa conoscere un Giappone diverso da come se lo immaginava. Il Giappone vero. Mingo è un ragazzo italiano, ma è quanto di più distante si possa immaginare dallo stereotipo dell’italiano marpione e collezionatore seriale di donne. Mingo è timido, introverso, romantico, idealista. Fatica a riconoscersi nell’aspettativa che gli altri gli costruiscono addosso solo per il fatto di essere italiano. Si fa strada nelle vicende della sua vita in Giappone alla ricerca dell’amore, con i propri mezzi che non sono quelli del “tipico” maschio italiano esperto in fatto di donne.
Lo stereotipo degli uomini italiani in Giappone
Avevo incontrato Peppe di sfuggita una volta prima che lui entrasse a TH. L’avevo solo incrociato a un evento. Quando l’ho rivisto era in TV, nello show di Netflix, e ho apprezzato tantissimo il modo in cui si è posto nei rapporti con gli altri partecipanti. La sua sensibilità, la sua onestà intellettuale, la sua visione delle cose a un livello di profondità e acutezza che non si vede comunemente in Giappone. Conosco tanti italiani estremamente in gamba qui in Giappone, ma i media giapponesi finora hanno preferito una narrativa diversa per noi italiani, relegando la nostra immagine allo stereotipo un po’ ripetitivo e “vecchio” del marpione conquistatore.
Mi piacerebbe tanto tradurre il manga di Peppe in italiano…
E qui entra in gioco nella mia vita Mingo, il manga di Peppe. Ho incontrato Peppe di nuovo lo scorso autunno a un famoso evento sulla cultura italiana a Tokyo. All’epoca Mingo, che è un’opera breve in 4 volumi, era già stato pubblicato in Giappone ottenendo un discreto successo. Mi sono intrattenuto in qualche chiacchiera con Giuseppe, e gli ho chiesto a titolo informativo: “Avete già programmato la pubblicazione del manga in Italia?”. Risposta affermativa, tutto arrangiato tramite case editrici. Ovviamente.
Peccato, mi sarebbe piaciuto tanto tradurlo, pensai.
E quella e-mail inaspettata che mi ha legato a Mingo
E qui arriva il mio secondo capitombolo giù dalla sedia.
Una sera di febbraio ricevo una mail del tutto inaspettata da Dynit Manga, famosa casa editrice italiana di manga. “Ciao Loris, ti contatto per proporti una traduzione. Si tratta di Mingo, il manga di Peppe. È un mangaka italiano. Lo conosci?”
Morto. Sguardo fisso sullo schermo, impietrito.
Rileggo la mail. La leggo altre cinque o sei volte per sicurezza. Sì, non c’era dubbio: mi stavano proponendo di tradurre proprio Mingo, il manga di Peppe. Quella sera feci fatica ad addormentarmi per l’adrenalina. Ero eccitato all’idea di occuparmi di quel titolo a cui tenevo particolarmente, e dopo l’incontro con Peppe lo scorso novembre non avrei mai creduto che questa cosa sarebbe mai successa. E invece mai dire mai! Vi lascio immaginare i salti di gioia. Non so come sia accaduto, quale arcano meccanismo ha fatto sì che ciò avvenisse, ma è successo davvero e per me è proprio un desiderio che si avvera. Ci teneveo davvero tanto, perché nella vita di Mingo mi ci rivedevo un po’ anche io.
Tradurre Mingo è un po’ come tradurre la mia vita
Mingo è un manga molto diverso da tutto ciò che già esisteva in Giappone. Racconta in tono divertente e interessante, da una prospettiva diversa, la storia di un gruppo di italiani a Tokyo di cui Mingo è il protagonista. Raccontata in prima persona dalla voce di un italiano che quelle esperienze le ha vissute davvero. Anche io diversi anni fa ho lasciato l’Italia per il Giappone guidato da una passione molto forte per questa cultura, proprio come Giuseppe e come il suo Mingo. La sua storia, seppur diversa dalla mia, in tantissimi punti mi ha fatto sorridere e annuire profondamente.
Sì, è vero! Porca miseria, è successo anche a me!
Lo stesso Giuseppe ha dichiarato che parecchi episodi del suo manga sono o si ispirano a fatti realmente accaduti. C’è molto di autobiografico e anche di elementi aggiunti sulla base di situazioni reali capitate ai suoi amici e conoscenti. Ma a prescindere dalle sottigliezze e dalle differenze individuali, credo che tutti noi italiani innamorati sin da piccoli del Giappone abbiamo un po’ di Mingo dentro di noi.
Dare voce alle avventure di Mingo
Ho lavorato con grande entusiasmo alla traduzione del manga (mi sono occupato della serie dal volume 2 in poi) e sono eccitatissimo all’idea di aver dato voce a Mingo e di aver presentato al pubblico italiano questa storia in cui mi rivedo tanto anche io.
Mingo, il manga di Peppe,vi racconterà con ironia e leggerezza i dilemmi e le gioie, le scoperte e gli imprevisti della vita quotidiana di un gruppo di italiani a Tokyo. Lo farà da una prospettiva che ci appartiene direttamente e che riguarda un po’tutti noi, amanti di questo misterioso Giappone.
Vi lascio qui il link al manga. Mi raccomando, aspetto i vostri commenti sulle avventure di Mingo!
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Non capita tutti i giorni di incontrare di persona l’autore di un manga sulla cresta dell’onda. Vi racconto il backstage della mia chiacchierata con il maestro Nagabe, autore di Girl from the Other Side.
È un mondo in “bianco e nero” quello di Girl from the Other Side, celebre opera del maestro Nagabe che racconta con toni estremamente delicati la convivenza improponibile di Shiva e del Maestro. Totsukuni no shojo, questo il titolo originale del manga che sta facendo parlare di sé in tutto il mondo per la sua estrema originalità, e di cui ho parlato spesso sui social, specialmente quando ho avuto l’onore di incontrare l’autore dell’opera.
Shiva è una bambina smarrita in un mondo in cui è “straniera”, e vive sotto lo stesso tetto del Maestro, una creatura bipede dal volto caprino affetto da una maledizione che si prende amorevolmente cura di lei. I due rappresentano gli opposti: bianco e nero, luce e tenebre, umano e animale. Eppure tra di loro si instaura un rapporto di tenera complicità, di una profondità che non può lasciare indifferenti.
Nagabe Sensei, l’autore di Girl from the Other Side
Girl from the Other Side nasce dalla mente e dalla mano di Ayumu Yoshida, in arte Nagabe. Nagabe è un ragazzo minuto di statura, giovanissimo per giunta. L’ho incontrato lo scorso settembre per un’intervista per Lucca Changes 2020 commissionata da J-POP Manga.
L’incontro con Nagabe e le chiacchiere di inframezzo
Parlando a telecamere spente mi ha confessato di aver appena compiuto ventissette anni. Io gliene avrei dati anche molti di meno. Ha un viso pulito, un gusto nell’abbigliamento ordinato, e un po’ preppy volendo. Il giorno dell’intervista indossava uno smanicato a coste larghe verde scuro e un paio di mocassini: pensai che quello stile si adattasse molto bene all’acconciatura di capelli vintage, una sorta di taglio a scodella molto ordinato ed elegante.
Incuriosito, ho chiesto al maestro Nagabe come fosse la sua giornata tipo. Mi sembrò quasi di essere colto da una smania “voyeuristica” di curiosare nella routine di un mangaka di successo. Nagabe, calmo e serafico, si è raccontato senza mai posare la penna stilografica dal foglio. Si alza tardi, ha detto. All’incirca verso mezzogiorno, a volte un po’ prima. Non cucina quasi mai e preferisci piatti comuni, non particolarmente elaborati. Lavora per circa otto ore, mangia, si fa il bagno, si risposa, e verso mezzanotte fa a dormire. Ricordo di aver pensato con una punta di invidia: “Madonna, dorme un sacco! Beato lui”. Ma lui anticipò quasi i miei pensieri, palesando a parole e con un sorriso gentile ciò che mi aveva attraversato la mente. “Dormo parecchio!”. E in quel momento fui completamente conquistato dalla sua aura di trasparente semplicità.
Non posso avventurarmi in chissà quali congetture sul maestro Nagabe, ma credo di non sbagliare troppo supponendo che sia un ragazzo timido e un tantino introverso. D’altronde il mestiere di mangaka non aiuta a socializzare: ore e ore trascorse in solitudine a disegnare, e ci sono giorni in cui non rivolge parola a nessuno.
Girl from the Other Side è una storia che coinvolge una protagonista umana e uno dalle sembianze zoomorfe. Nagabe mi spiegava la sua passione per gli animali, e come amasse disegnarli tutti, nessuno escluso. Quelli a portata di mano li studiava di persona, con i propri occhi, tutti gli altri li guardava nei documentari. Per la figura del Maestro, Nagabe ha optato per un volto affusolato, caprino appunto, e due lunghe corna sul capo, per veicolare un senso di inquietudine.
Il tratto peculiare di Nagabe
Il maestro Nagabe ripassa la matita dei suoi disegni con la penna stilografica, e riempie i neri con un pennello morbido a inchiostro. Era la prima volta che vedevo usare la penna stilografica, non pensavo ci fossero mangaka che usassero quella tecnica. Dopo averlo scoperto sono andato a riguardare i suoi manga, e tutto mi è apparso più logico. Tra l’altro, e non è una coincidenza, il tratto deciso e robusto della penna stilografica si sposa benissimo con l’atmosfera gotica di Girl from the Other Side. Lo guardavo disegnare mentre gli facevo le domande in scaletta, e pensavo tra me e me che avesse un modo molto curioso di impugnare la penna. Vagamente bambinesco, forse, e questo mi strappò un sorriso. Fissavo ammaliato il disegno prendere vita guidato dagli affondi decisi della sua mano sul foglio.
Di Nagabe mi ha colpito l’estrema spontaneità, la freschezza, e se vogliamo l’ingenuità del suo sorriso. Tutte sensazioni miei personalissime, chiaramente, ma di quella giornata in sua compagnia conservo un ricordo piacevolissimo.
Girl from the Other Side è un dark fantasy fuori dal coro per molti aspetti. Il tratto, nostalgico e lontano dai trend contemporanei, si avvicina molto di più alla tradizione gotica occidentale rispetto ai classici manga giapponesi. In Girl from the Other Side il maestro Nagabe raffigura (con la sua penna stilografica) un mondo di opposti, o meglio, due mondi opposti e separati tra di loro.
Un meraviglioso OVA di Girl from the Other Side prodotto da Wit Studio è offerto in visione anche al pubblico italiano durante la settimana del JFF (Japan Film Festival), Festival che si protrarrà dal 26 febbraio fino a domenica 7 marzo.
Dura solo dieci minuti, ma riesce stupendamente a dare vita alla dimensione in chiaroscuro di Nagabe, lasciandoci immergere nel mondo noir di Shiva e del maestro, un mondo pregno di mistero e di inquietudine, di poesia, diversità e sconfinata tenerezza.
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Cos’è Tokyo Revengers? Che sfide sono state affrontate in fase di traduzione? E com’è accolto in patria Tokyo Revengers? Ve ne parlo qui!
Baby gang, viaggi nel tempo e amore
Avete mai pensato a cosa succeda un istante prima di morire?
Si dice che un flash ci attraversi la mente, i ricordi, mostrandoci tutta la nostra vita, come in una pellicola cinematografica che si esaurisce in un batter di ciglia. Ci si aspetterebbe un flashback glorioso, i momenti più epici della nostra esistenza. Ma chi può dirlo?
Anche Takemichi, in stazione, scivolato dalla banchina e precipitato sui binari poco prima dell’arrivo del treno, pensava che fosse arrivata la fine. Si aspettava il proprio edificante flashback, ma le sue aspettative furono tradite da quello che accadde subito dopo.
La missione di Takemichi
La tediosa esistenza di Takemichi, un giovane ragazzo di ventisei anni senza voglia di lavorare o particolari ambizioni nella vita, con un passato da teppista e tanti fallimenti alle spalle, viene sconvolta da una news improvvisa al TG. Hinata, l’unica fidanzata che abbia mai avuto in vita sua, era morta in un incidente violento nel bel mezzo di un matsuri. Erano anni che non la vedeva, ma forse il ricordo di Hinata non aveva mai lasciato i suoi pensieri.
Ed è così che Takemichi, accasciato sui binari del treno, viene catapultato indietro nel tempo di ben dodici anni. Invece di morire travolto dal mezzo, si ritrova adolescente, biondo ossigenato, in compagnia dei suoi amici storici con indosso l’uniforme scolastica adattata secondo la moda dell’epoca alla maniera dei baby gangster delle medie. A tutto c’è una ragione, e così Takemichi inizia il suo andirivieni tra passato e presente con una missione chiara davanti a sé.
Tokyo Revengers è un manga shonen suggestivo e di grande suspense che tocca diversi generi spaziando dalla tematica “gangster”, a quella del manga di fantascienza. Una storia di baby gang e di adolescenza, di scazzottate e vendette, ma anche di onore e codici non scritti, di emarginazione sociale e disagio, di viaggi nel tempo e crescita personale.
Il primo manga non si scorda mai
Ora, non lo sbandiero spesso ai quattro venti come faccio con le indiscutibili meraviglie del genere shojo, ma sono un grande appassionato di storie malavitose. Specialmente gruppi mafiosi, regolamenti di conti, fazioni rivali, ecc. Dubito che la redazione di J-POP fosse a conoscenza di questo dettaglio, fatto sta che quando il mio editor mi ha proposto di occuparmi di Tokyo Revengers ho fatto un salto di gioia che vi lascio immaginare.
Non solo ero eccitato per via dell’interesse personale sull’argomento, ma anche per un’altra questione decisamente più importante. Finora ho tradotto romanzi e novel, ma Tokyo Revengers è a tutti gli effetti il primo manga di cui mi occupo da solo, dall’inizio alla fine (si spera!). È il mio bambino!
La traduzione
Lavorare alla traduzione di Tokyo Revengers è un compito avvincente per molte ragioni.
Innanzitutto il linguaggio decisamente colorito e sfacciato dei dialoghi. I personaggi usano espressioni in un giapponese molto colloquiale, proprio di basso livello e all’occorrenza anche volgari. Stiamo pur sempre parlando di ragazzini malavitosi. Mi veniva da ridere mentre leggevo il manga e pensavo a come rendere quello scambio di battute. Onestamente avrei voluto tradurre Tokyo Revengers in dialetto romano. Purtroppo, per quanto ne sarebbe venuto fuori un lavoro decisamente credibile (in stile Suburra), non era la scelta sociolinguistica più adatta. Insomma, non è che potevano dare a Takemichi & co. una colorazione culturale regionale così specifica. Quindi è stato necessario stemperare un po’ e trovare un punto di incontro con un registro che si calasse “elegantemente” a metà tra l’italiano standard e il livello meno brilluccicoso di un qualsiasi dialetto. Con il supporto della redazione abbiamo trovato una via di mezzo che spero renderà al pubblico il giusto feeling.
Un’altra cosa che mi diverte da morire è lo scambio di battute infantili e un po’ sconce dei personaggi. Ripeto: adolescenti in preda agli ormoni. Quindi, ecco, tra riviste porno, peli pubici, cacche (Arale docet), non ci si annoia davvero.
Tokyo Revengers… oltre il manga c’è di più!
Tokyo Revengers esce in Giappone per Kodansha e la pubblicazione del manga è ancora in corso. Nel 2017 è stato il manga che ha registrato il più grande volume di vendite tra i nuovi manga del genere time slip. Ha riscosso, e continua a riscuotere una valanga di successo. Anzi, dato l’enorme seguito in patria, è stata già annunciata l’uscita in TV della versione anime a partire dall’aprile 2021 e sempre quest’anno, a luglio, uscirà nei cinema giapponesi addirittura la LIVE Action! E IO NON VEDO L’ORA!
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Diventare traduttori: un pizzico di fortuna… ma il traguardo è dei tignosi.
Diventare traduttori richiede passione e tradurre è sempre stato il mio sogno, sin da bambino. Volevo raccontare il Giappone e offrirlo così com’era, nudo e crudo, ai lettori italiani. Per poter arrivare a ciò era necessario tutto un percorso a monte che ha richiesto tempo, costanza e determinazione. Sicuramente anche un pizzico di fortuna, ma più di ogni altra cosa una sconfinata passione. La fortuna aiuta gli audaci, e certamente non guasta mai. Il treno potrebbe passare per chiunque, anche un po’ per caso, tuttavia se la materia prima scarseggia quel treno a vapore che si ciba di risorse non riuscirà ad alimentarsi a lungo, e ben presto finirà per arenarsi su un binario qualsiasi, abbandonato e dimenticato dal mondo. Ma soprattutto abbandonato da noi stessi nel nostro cassetto dei “tentativi falliti”. Un fuoco di paglia, insomma.
Diventare traduttori richiede anche tanta pazienza. Avere basi solide è il presupposto per mollare gli ormeggi e salpare. Lavorare sodo per ottenerle, è l’inizio del viaggio. Ci vuole tempo per acquisire un bagaglio di conoscenze linguistiche sufficienti, ci vuole tempo per impratichirsi con il lavoro e ci vuole tempo per farsi conoscere e farsi apprezzare. Io ho cominciato a tradurre più di dieci anni fa. All’inizio erano piccoli lavori senza seguito, e nella maggior parte dei casi anche piuttosto noiosi e ripetitivi: manuali di istruzioni, lettere di incarico, contratti, questionari… Insomma, un genere assolutamente rispettabile, al quale però non sono mai riuscito ad appassionarmi.
In termini prettamente economici, per me era poco più di un extra a tempo perso: traducevo volumi irrisori e comunque la paga era quello che era. Dovevo mantenermi (a Tokyo) e come tutti avevo bisogno di una certa sicurezza economica, quindi mi sono dedicato per diversi anni ad altri lavori decisamente più “stabili” e volendo più redditizi. Poco alla volta, però, e sempre a “tempo perso” (leggasi: “di notte invece di dormire”, perché con un impiego fulltime in un’azienda giapponese non è che ti rimanga molto tempo per il resto) ho iniziato a ricevere incarichi da traduttore un attimino più accattivanti dei manuali di istruzioni. Articoli di cultura, guide turistiche, canzoni. Questi lavori, valutati complessivamente in maniera positiva, hanno generato un minimo di passaparola.
Anche le mie esperienze lavorative aziendali, così come il mio network di relazioni personali, hanno contribuito a preparare il salto che sarebbe stato fondamentale per il futuro, ossia l’attuale presente, e così un bel giorno anche per me è passato il famoso treno. Mi è stato proposta la traduzione di un romanzo. L’occasione di una vita, la cosiddetta “botta di culo”, excuse my French. I tempi erano maturi: avevo gli strumenti, sufficiente esperienza ma soprattutto passione e una inesauribile voglia di riuscire. Così, le mani un po’ tremanti per l’emozione, ho messo in valigia tutto quello che avevo imparato nell’arco di circa dieci anni e ho ingranato la prima. Poi timidamente la seconda, quindi la terza. Poi ho mollato gli ormeggi, sono uscito in autostrada e adesso guai a chi mi ferma.
Io non sono nessuno. Sono ancora giovane, ancora relativamente nuovo in questo mondo e ho una montagna di cose da migliorare, imparare e correggere. Ma qualcosina la so, e agli aspiranti traduttori, quelli che hanno il fuoco che brucia dentro, vorrei dire di non scoraggiarsi. Serve tantissima pazienza e solide competenze, ma è la passione a fare la differenza tra chi si limita a consegnare un lavoro, e chi invece da via all’editore una traduzione come fosse un appendice del proprio corpo. Se si è stati in grado di gettare solide basi con perseveranza e dedizione, prima o poi il treno arriva. Il problema è che nella maggior parte dei casi gli aspiranti traduttori non sono disposti ad attendere il momento giusto e rinunciano prima. Posso capirne le ragioni, è stato lo stesso per me, ma quando si desidera davvero una cosa, gettare la spugna non è mai un’opzione.
Il peso dell’autorità di chi ha tradotto il Giappone prima di me e il mio senso di inadeguatezza mi avevano quasi convinto a desistere, ma al tempo stesso hanno anche funzionato da incentivo a crescere, a continuare a studiare, sperimentare, tentare sempre. Insoddisfatto e scoraggiato, tante volte ho pensato di rinunciare, ma nel lungo periodo è stata la pazienza (e la tigna!) a esser premiata. A questo punto mi correggerei: la fortuna aiuta gli audaci, ma solo i tignosi arrivano al traguardo.
C’è voluto del tempo, ma il sogno alla fine si è avverato.
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