LA RICERCA DEL LAVORO IN GIAPPONE

LA RICERCA DEL LAVORO IN GIAPPONE

In questo post racconterò come avviene la ricerca del lavoro in Giappone. Conoscendo nel dettaglio l’efficienza di questo sistema si può capire perché il tasso di disoccupazione giovanile giapponese sia tanto basso. Racconterò cosa significhi per un giapponese neolaureato cercare un lavoro, e in cosa consista questo percorso che porta alla lettera di assunzione. Non mancherò di includere anche alcune mie riflessioni personali sui risvolti più oscuri di questo processo, che ho avuto modo di sperimentare in prima persona. Premetto che esistono anche altre modalità, meno estreme e più “internazionali”, di cercare lavoro in Giappone ma in questa sede parlerò dell’iter considerato “standard”. Buona lettura!

I numeri dicono tanto (ma non tutto)

Tanto per cominciare, un’occhiata ai numeri. Disoccupazione giovanile tra il 3.6% e il 3.8% a fronte di un tasso generale di disoccupazione nazionale che oscilla intorno al 2.4% (2019). Ergo: in Giappone c’è lavoro, e pure parecchio. Ma forse non si tratta solamente di quantità di posti di lavoro: l’alto tasso di occupazione va interpretato anche in funzione del peculiare sistema di recruiting. La ricerca del lavoro in Giappone avviene infatti secondo un sistema tanto rigido quanto efficiente.

ricerca del lavoro in giappone
La “corsa” al posto migliore.

Come inizia la ricerca del lavoro in Giappone?


La ricerca del lavoro in Giappone non consiste solamente nello stampare decine di CV e distribuirli tipo stelline ninja alle aziende, oppure spammare l’indirizzo e-mail delle risorse umane indirizzandosi a chi di competenza e attendere “la chiamata”. No. Tanto per cominciare bisogna creare un profilo su determinati motori di ricerca specializzati nella raccolta di inserzioni di lavoro, come Rikunabi, Mynavi, Recruit o Indeed solo per citare i più famosi. Questi motori di ricerca raggruppano le offerte di tutte le aziende (principalmente giapponesi ma non solo), che assumono sul territorio nazionale. I suddetti motori di ricerca sono praticamente gli unici luoghi da cui è possibile accedere alle inserzioni di lavoro per alcune specifiche aziende, tra cui i grandi colossi.

Ricerca del lavoro in Giappone: le tempistiche

Una volta creato il proprio profilo accademico e all’occorrenza professionale (questo nel caso di un chūtosaiyō 中途採用, ossia di un cambio di lavoro) si è in grado di iniziare il processo di ricerca. Qui è necessario porre il primo asterisco: diversamente dall’Italia, la ricerca del lavoro in Giappone massiccia, quella in cui viene assegnato il grosso dei posti disponibili, non avviene durante tutto l’arco dell’anno. Le cose stanno cambiando di anno in anno, ma ancora esistono delle stagioni di reclutamento stabilite a livello nazionale i cui termini sono piuttosto rigorosi. Senza menzionare poi il fattore età. Chiaramente c’è chi prosegue gli studi universitari di base e frequenta master, dottorati di ricerca e così via, ma a onor del vero la maggior parte degli studenti universitari giapponesi inizia a lavorare immediatamente dopo il Bachelor. Quindi anche l’età dei partecipanti al processo di selezione è piuttosto omogenea, e oscilla tra i 20-21 anni.

ricerca del lavoro in giappone
Studenti al terzo anno di università in lizza per conquistare un posto nelle migliori aziende.

Durata del processo di ricerca del lavoro in Giappone

Perché? Il processo di ricerca di un lavoro (il cosidetto shūshokukatsudō 就職活動 abbreviato per praticità in shūkatsu 就活) non inizia in coincidenza con la laurea, bensì circa un anno e mezzo prima della laurea stessa. L’anno accademico inizia in aprile e in linea di massima tutti gli studenti giapponesi si laureano a fine marzo, al termine del quarto anno di iscrizione. Non esistono in linea di massima eccezioni a questa regola. Dunque, lo shūkatsu inizia in genere verso l’autunno del penultimo anno di università (il terzo, quindi) e prosegue fino alla primavera inoltrata (in alcuni casi anche giungo, luglio) dell’anno seguente. Se tutto va bene il processo dura circa 5-6 mesi e corrisponde al periodo a cavallo tra il terzo e il quarto anno accademico. Al termine di questo processo, verso maggio o giugno, si sarà ottenuto un lavoro il cui inizio è previsto per il primo aprile dell’anno seguente, in modo da iniziare a lavorare praticamente il giorno successivo alla laurea, aenza pause. Insomma, tirando le somme, da quando si inizia a cercare un lavoro a quando si inizia effettivamente a lavorare passano circa sedici mesi. Di questi sedici mesi, circa sei vengono dedicati completamente alla riuscita dello shūkatsu e i restanti dieci servono ufficialmente a terminare gli eventuali esami e a scrivere la tesi. Ma la verità è un po’ diversa: in genere ne approfittano tutti per godersi un po la vita, consapevoli che una volta diventati shakaijin 社会人(letteralmente “persone della società”, ossia lavoratori) le cose cambieranno nettamente.

Lo shūkatsu, passo per passo

Vediamo più da vicino in cosa consiste lo shūkatsu, ossia il processo di ricerca del lavoro in Giappone. “Si tratta di fare colloqui di lavoro, no?”, direte voi. Piano, non c’è fretta… procediamo con calma. Anzi, il colloquio in sé è forse l’ultima tappa del processo. Innanzitutto bisogna selezionare le aziende di interesse tramite i motori di ricerca menzionati precedentemente.

Setsumeikai: le giornate di presentazione

Come prima cosa ci si deve iscrivere alle setsumeikai 説明会 (giornate di presentazione delle single aziende) e inizia così il processo. Si partecipa alla setsumeikai dell’azienda X insieme a tutti gli studenti (rigorosamente tutti nella stessa fascia di età) provenienti da tutto il Giappone, interessati a essere assunti da quella azienda. L’iter può cambiare a seconda dell’azienda, ma in linea di massima segue, dopo la setsumeikai, un test della personalità.

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Le giornate in cui le singole aziende si presentano ai candidati da tutto il Paese.

I test scritti

Immaginate un aula piena di studenti (tutti rigorosamente in giacca e cravatta o in tailleur) che ascoltano una voce registrata leggere tre domande al minuto per un totale di circa cinquanta questiti (il tutto in giapponese ovviamente) alle quali rispondere scegliendo “Mi riguarda”, “Mi riguarda poco”, “maancheno”, ecc. In un’altra giornata, o anche durante la stessa, a volte, si viene sottoposti al test scritto: SPI. Tre materie principali vengono testate: giapponese, calcolo e logica. Chi supera i test scritti (idoneità al test psicologico e all’SPI) accede alla fase di selezione del curriculum e di eventuali altri documenti (lettere motivazionali, ecc) richiesti da azienda in azienda.

Il CV in Giappone: modalità di compilazione e contenuti

… questa è la parte che preferisco: il CV (o rirekisho 履歴書). Quando racconto di questa usanza agli stranieri, rimangono sempre tutti abbastanza di sasso. Il CV per la ricerca del lavoro in Giappone deve essere rigorosamente a mano compilando l’apposito formato e spedendito per posta ordinaria. È d’obbligo allegare la propria fotografia (che deve rispondere a determinati standard) e i contenuti da inserire, come indicato nel template, riguardano: 1) il proprio percorso di studi, 2) le certificazioni che si posseggono, 3) hobby e interessi, 4) la propria motivazione al lavoro e uno spazio in cui promuovere se stessi per la posizione in questione. Questo è il modulo di base per tutti, specialmente i neolaureati privi di esperienze lavorative. A parte, invece, per chi stesse cercando di cambiare lavoro, esiste un altro form chiamato shokumu keirekisho 経歴書 in cui bisogna elencare nel dettaglio le esperiene lavorative pregresse.

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Il mio CV, rigorosamente scritto a mano.

La sfilza di colloqui fino alla “promessa di assunzione”

Se anche questo step viene superato si accede alla fase dei colloqui. Prima di gruppo, poi individuali, per un totale di circa tre o quattro sessioni in tutto. Il superamento dell’ultimo colloquio con i mega vertici in genere determina il “sì” o il “no” per l’assunzione. Per essere precisi, il naitei 内定(“decisone interna”, una promessa informale di assunzione, che viene formalizzata in un secondo momento). Moltiplicate ora tutto questo processo per almeno una trentina di aziende (il numero di aziende che gli studenti giapponesi selezionano in media per essere certi di ottenere almeno un naitei), ecco che i sei mesi di shūkatsu sono una griglia fitta fitta di impegni, tanto da poter considerare la ricerca del lavoro in Giappone un vero e proprio lavoro a tempo pieno di per sé.

Luci e ombre dello shūkatsu

Il sistema della ricerca del lavoro in Giappone, nella sua innegabile complessità, presenta luci e ombre. Può essere tacciato di eccessiva severità e rigidità (e lo è, garantisco!) ma d’altro canto è un metodo efficiente che 1) smuove l’economia nazionale in maniera considerevole (l’abbigliamento per lo shūkatsu, il trucco per lo shūkatsu, le spese di trasporto fino alle sedi delle aziende da tutti gli angoli del Paese, i pasti consumati fuori casa, l’acquisto dei CV da compilare e dei manuali di preparazione all’esame scritto, e così via) e che 2) garantisce quasi con certezza a tutti i neolaureati giapponesi di ottenere un posto di lavoro, discretamente retribuito e con concrete prospettive di assunzione a tempo indeterminate.

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Gruppo di studentesse in pausa tra una Setsumeikai e la seguente.

Un sistema efficiente ma non perfetto.

Vorrei aprire una parentesi relativamente al quasi di qualche linea in alto. Purtroppo il sistema non è perfetto al 100% e ovviamente buona parte dell’esito del processo dipende dai singoli candidati, un aspetto che il sistema per la ricerca del lavoro in Giappone non può controllare fino in fondo. Una percentuale, seppur minima, di studenti non esce vincitrice dalla battaglia efferata dello shūkatsu. I mesi passano senza ottenere il tanto agognato naitei e la stagione di reclutamento si conclude con un insuccesso. Lo studente che non ottiene alcun naitei entro luglio, non ha altra scelta se non attendere dicembre e ricominciare da capo l’intero processo, perdendo un anno rispetto ai suoi coetanei e diventando ryūnensha 留年者 (ossia coloro i quali non hanno trovato un lavoro nei tempi prestabiliti e al contempo non essendo più studenti “perdono il treno” rimanendo temporaneamente incastrati in un limbo scomodo). Un processo più o meno standard per l’italiano medio “fuori corso”, ma decisamente raro e poco auspicabile in Giappone.

Risvolti drammatici della ricerca del lavoro in Giappone

Esiste un risvolto drammatico – e uno ancora più drammatico – a tutta questa vicenda. Il ryūnensha, nei mesi di attesa prima della nuova stagione di reclutamento è tenuto comunque a tornare in università per continuare la tesi e il resto delle pratiche. Presentarsi sconfitti in università può essere molto difficile. Tra gli studenti di quell’età, nei mesi successivi alla fine dello shūkatsu, l’argomento più comune è proprio dove si lavorerà dall’aprile dell’anno seguente. Non avere ottenuto un posto di lavoro è una verità dolorosa, complicata da accettare e da confessare, all’interno di una società omogenea che si muove insieme e che tiene in grande considerazione i vari step della vita, traguardi da raggiungere al momento opportuno. Convivere con un fallimento del genere porta la maggior parte dei ryūnensha a evitare il discorso e quindi a nascondersi dalla società. I più ottimisti dopo un periodo di comprensibile abbattimento si riprendono e tornano sul campo di battaglia l’anno seguente. I più negativi, purtroppo, non vedono via d’uscita e incappano in problemi di consistente spessore come depressioni e fobie. Altri, una minoranza per fortuna, lasciano questa vita per sempre.

La ricerca e l’ottenimento di un posto di lavoro rappresentano un punto cruciale della vita di ogni giapponese, che corrisponde al passaggio dalla precedente condizione di “studente” a quella di “persona della società”. Raggiunto questo nuovo status, sulle spalle dell’individuo viene scaricata una serie di nuovi obblighi e responsabilità. L’indipendenza economica reca con sé certamente il godimento di un nuovo assetto di privilegi, ma nel complesso sono più i doveri che i diritti. O meglio, più i doveri che i piaceri. Il processo di ricerca del lavoro in Giappone, lo shūkatsu, potrebbe essere paragonato a un rito di iniziazione a tutti gli effetti, il quale sancisce per ciascun giapponese la promozione (o la bocciatura) al gradino successivo della “scala evolutiva” in quanto animali sociali all’interno della società giapponese.

Qui trovate il link alla prima LIVE di Instagram sul tema “La ricerca del lavoro in Giappone” insieme alla mitica Fabiana Andreani, esperta in orientamento al mondo del lavoro e carriera.

Il Capodanno in Giappone

Il Capodanno in Giappone

Il Capodanno in Giappone mi piace molto, prima di tutto perché ti sottrae da quella tassa fissa di: “Che fai a Capodanno?”. Se in Italia si dice “Natale con i tuoi, Capodanno con chi voi”, in Giappone vale la regola opposta.

Il Capodanno è la festività giapponese di fine anno più importante. Quella, per intenderci, che si trascorre a casa con la famiglia. Il Natale, invece, è una giornata che spazia dal trash più spudorato di mega abbuffate tra amici a base di pollo fritto KFC, alla cena iper-chic nel ristorantino giusto con la dolce metà (magari in attesa di una proposta di matrimonio!).

Proprio perché il Capodanno in Giappone è una festa della famiglia, per molti stranieri non è scontato sperimentare il Capodanno giapponese tradizionale. Io, grazie al fatto di essere stato fidanzato con un ragazzo giapponese, ho avuto questa fortuna e vi voglio raccontare un po’ come è stato per me.

Fuori il vecchio, dentro il nuovo

I giapponesi, quando si avvicina la fine dell’anno, entrano in pieno mood Cenerentola e iniziano a “sistemare” come tante formichine allucinate. Sistemare il vecchio per prepararsi all’arrivo del nuovo. Loro non hanno le grandi pulizie di primavera, bensì quelle di fine anno (年末の大掃除, nenmatsu no ōsoji). Sistemano gli oggetti e sistemano anche il lavoro: lo “mettono a posto” (仕事納め, shigoto osame). Quando si avvicina la fine dell’anno, tutti in azienda (e non solo) si sbrigano a chiudere i progetti lasciati a metà, nella speranza di iniziare il nuovo anno a tabula rasa (ma raramente ci si riesce, è una chimera dei tempi moderni).

L’esodo dalle città alla periferia

Tutta questa corsa a “sistemare il lavoro” è mirata al poter lasciare serenamente la grande metropoli per tornare qualche giorno al proprio paese d’origine (帰省する, kisei suru). Si fa ritorno alla propria casa d’infanzia (実家, jikka) in cui vivono ancora i genitori, e ci si riunisce con la famiglia per trascorrere insieme quanto meno la vigilia di Capodanno (大晦日, ōmisoka) e il primo dell’anno(お正月, o-shōgatsu).

Passatempi di Capodanno

L’ultimo dell’anno non è accompagnato da vibranti fuochi d’artificio come in tutto il resto del mondo (“Che cosa? A Capodanno sparate i botti?!” Cit. Ex ragazzo giapponese), bensì da tanta quiete e silenzio. E un immancabile programma televisivo, “Kohaku Utagassen” (紅白歌合戦), che ricorda un po’ il nostro Festival di Sanremo per la parte canora, ma consiste nella gara tra due squadre (i Bianchi e i Rossi, due colori propizi e di buon auspicio) a suon di performance musicali. Il pubblico sovrano stabilisce con il televoto la squadra vincitrice. Attesissima l’esibizione sempre pazèska di Ishikawa Sayuri con la sua intramontabile “Amagigoe” (天城越え) o “Tsugarukaikyō Fuyugeshiki”(津軽海峡・冬景色). Adoro con tutto me stesso la bufera di cotone, coriandoli e polistirolo che puntualmente la avvolge come una musa delle nevi.

Un altro passatempo tipico del Capodanno in Giappone è il gioco karuta (かるた). Come lascia intendere il nome, è qualcosa che ha a che fare con le cartema non ha nulla a che vedere con la nostra briscola, sette e mezzo, bestia o quant’altro. Si può giocare a karuta in svariati modi, ma quello che noi abbiamo sempre fatto a Capodanno prevedeva l’accoppiare le carte di un mazzo in cui c’era scritto un proverbio all’altro mazzo in cui c’era un immagine che corrispondeva alla descrizione. Adoro, e ho imparato tantissimi proverbi!

Karuta Capodanno giapponese
Un tipico passatempo del Capodanno giapponese (karuta)

Lenticchie, cotechino… o forse no.

Il menù del periodo di Capodanno non è casuale, si mangiano pietanze ben precise. Verso novembre si cominciano a vedere in giro per la città sulle vetrine dei ristoranti scritte del tipo “Accettiamo ordini per i vostri o-sechi ryōri”(お節料理). Avete presente quelle scatole quadrate di resina laccata, accatastabili l’una sopra l’altra? Ecco, quelle. Il contenuto degli o-sechi ryōri può variare a seconda delle regioni, ma di base è sempre un set di pietanze considerate di buon auspicio, con dei significati precisi.

Per fare qualche esempio: i fagioli dolci e non (diligenza e frugalità), la radice di loto (che con i suoi buchi si dice porti fortuna perché lascia intravedere il futuro e lo rende più radioso), il kazunoko (数の子), una sorta di caviale che con le sue mille uova minuscole si dice porti salute e prosperità a figli e nipoti, ecc…

capodanno giapponese
Pietanze tradizioni del Capodanno giapponese (o-sechi ryōri)

E poi, diciamolo, sono cibi anche molto pratici. Li si prepara (compra, più che altro) impiegando molto tempo, ma trattandosi per lo più cibi che resistono qualche giorno non ci si deve alzare mai più da kotatsu (il tavolo riscaldato sotto), che è una meraviglia ma crea dipendenza, e ci si può ingozzare fino allo sfinimento.

Ma attenzione a lasciare uno spazietto per la soba di mezzanotte, la toshi-koshi soba (年越し蕎麦), ossia la ciotola di soba che si risucchia a cavallo tra il vecchio e il nuovo anno in segno di augurio e prosperità. Gli spaghetti di soba, infatti, lunghi e sottili, simboleggiano un’esistenza longeva ma non molto intensa (細く長い人生). Mah, vado matto per la soba, ma non so se sono d’accordo con questa filosofia di vita opposta agli udon, corti ma spessi (太く短い). Ironico, perché gli udon invece non mi fanno impazzire.

Iniziare a pancia piena…

Il primo dell’anno comincia a bomba con la colazione tipica del Capodanno giapponese. Si chiama o-zōni (お雑煮) e consiste in una zuppa con verdure e il tipico tortino di riso mochi ammollato dentro. Anche questo è un piatto di buon auspicio per l’anno nuovo il cui significato risale al codice guerriero. La frase “innalzare il proprio nome”(名を持ち上げる), infatti, con un gioco di parole potrebbe essere letta anche così: “donare verdure e mochi”(菜を餅上げる).

…e pieni di buoni propositi

Terminata la colazione si procede ai buoni propositi dell’anno nuovo. Si scrive il proprio kakizome (書き初め), il concetto guida per l’anno incipiente, una frase, quello che si vuole, su un foglio bianco come vuole l’arte calligrafica tradizionale giapponese dello shodo. E poi li si appende in cucina, proprio come facciamo noi con i tanto amati scarabocchi che i bambini portano a casa dall’asilo (almeno, così ha fatto la madre del mio ex… all’inizio ero scarsissimo, e vedermelo attaccato al muro della cucina tutte le volte cheandavamo per un anno mi faceva puntualmente morire di imbarazzo).

Alle prese con il mio buon proposito...
Alle prese con il mio kakizome, il buon proposito dell’anno nuovo.

Poi siamo andati a fare visita al santuario vicino casa. La prima visita al santuario dell’anno si chiama hatsumōde (初詣). In molti pensano che la prima visita dell’anno si debba necessariamente svolgere in un jinja, santuario (shintoista), ma a quanto pare vale anche per gli o-tera, i templi (buddhisti). È indifferente, basta andare e pregare.

Tra l’altro, noi che siamo stati sempre pigri, abbiamo visto il conteggio dei rintocchi della campana joya no kane (除夜の鐘) alla mezzanotte del 31 dicembre in TV, ma parecchia gente accoglie la mezzanotte direttamente al tempio.

Hatusmode capodanno giapponese
La nostra prima visita al tempio (hatsumōde)

Eat, sleep, relax… REPEAT!

E poi si mangia, si dorme, ci si rilassa, si guarda la TV… and repeat. Questo è stato il mio Capodanno giapponese per tre anni consecutivi. A volte capitava che tornassi in Italia per Natale e poi rientrassi in Giappone appositamente per Capodanno, e con questo stratagemma mi beccavo la doppia vacanza tradizionale.

La magia delle feste dura poco, qualche giorno di riposo e poi tutti di nuovo a mandare avanti l’ingranaggio. Ma credo che le vacanze di Capodanno siano forse gli unici giorni dell’anno in cui i giapponesi si riposano davvero, e per una volta mettono giù la penna.

TRENT’ANNI DI BARAZOKU

TRENT’ANNI DI BARAZOKU

Il ruolo della rivista Barazoku nella formazione di una comunità LGBT in Giappone

Barazoku è la prima rivista del Giappone rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale. Viene fondata agli inizi degli anni ’70 da Itō Bungaku, un uomo (eterosessuale) con un incredibile sensibilità. Era un periodo particolarmente intenso a livello mondiale per la comunità LGBT, che da Stonewall in poi iniziò a reagire ai soprusi e alle violenze alzando la voce. La storia della comunità omosessuale giapponese si inserisce in questo contesto, ma in un Paese in cui la contestazione feroce e violenta non è mai contemplata in nessun ambito, la storia è stata diversa.

TRENT’ANNI DI BARAZOKU è il titolo del libro che ho scritto per raccontare ai lettori in Italia le dinamiche peculiari che hanno portato alla nascita della moderna gay community giapponese. Attualmente questo è l’unico libro in lingua italiana disponibile sull’argomento.

In primo piano il numero inaugurale di Barazoku (Settembre 1971).

La storia della formazione di una gay community giapponese è un’avventura che si è sviluppata sotto la superficiale dell’acqua. All’oscuro degli occhi della gente, e al tempo stesso lì, sugli scaffali delle librerie, compariva Barazoku. Non una semplice rivista, bensì la prima, quella che ha innescato il meccanismo che avrebbe portato nel corso del trentennio di pubblicazione alla nascita e all’affermazione di una gay community in senso moderno.

La rivista come prima piattaforma di interazione

Prima dell’avvento di Barazoku, al di là dei cinema a luci rosse, i parchi, i bagni pubblici e pochi altri escamotage più o meno leciti per incontrare altri omosessuali, in Giappone non erano molti i luoghi di incontro e socializzazione. La messa al bando del business della prostituzione nel 1957, ha favorito la prolificazione dei bar a tematica gay nel quartiere di Shinjuku Nichome, a Tokyo. Nell’arco di dieci anni, fino alla fine degli anni ’60, Nichome era diventata una roccaforte dell’intrattenimento per omosessuali. Tuttavia, questo non necessariamente corrispondeva alla creazione di ambienti di interazione, e soprattutto tagliava fuori tutti quelli che non abitavano nella metropoli.

Barazoku, per la prima volta, fornì alla disconnessa comunità omosessuale giapponese la possibilità di incontrarsi su una piattaforma inizialmente virtuale. Era “solo” una rivista ma la “Rubrica dei lettori” permise un fitto scambio di opinioni, sensazioni, gioie, dilemmi, emozioni. Un luogo, seppur astratto, in cui condividere esperienze e sviluppare un linguaggio comune, un sentire proprio a un gruppo definito. Barazoku ha dato il via alla formazione di una identità di genere omosessuale in Giappone, prima tramite le pagine della rivista, poi organizzando il primo incontro fisico, nel 1974, tra i lettori della rivista. Non una semplice festa, bensì il primo evento che ha riunito nella stessa stanza più di cento omosessuali giapponesi.

La “Rubrica dei Lettori” era l’angolo dedicato alle lettere con cui i lettori potevano entrare in contatto gli uni con gli altri.

Il ruolo sociale della rivista

In un’epoca in cui le comunicazioni scorrevano a velocità ben più analogica, Barazoku ricoprì un ruolo fondamentale nell’informare e nel tenere insieme la comunità omosessuale giapponese. La notizia relativa alla scoperta del virus dell’HIV, che sconvolse il mondo intero, fu gestita in maniera a dir poco grottesca in Giappone. Il Governo mise in atto un’opera di insabbiamento della verità per camuffare i risvolti tragici di un proprio errore imperdonabile e far così tornare i conti a proprio vantaggio. Ma in tutte le catastrofi c’è bisogno di un capro espiatorio. Vi lascio immaginare com’è andata la storia.

Il libro di Barazoku

・Come erano concepite tradizionalmente le relazioni omosessuali nel Giappone?
Da dove origina la comunità LGBT giapponese?
・In che contesto è nata Barazoku? Chi l’ha fondata?
・Che tipo di supporto ha offerto la rivista e come ha contribuito alla formazione di una gay community?

TRENT’ANNI DI BARAZOKU” è il primo (e unico) libro in lingua italiana sulla formazione di una comunità omosessuale in Giappone. vi svelerà tutti i retroscena, le dinamiche, la fortuna e gli scandali di questa avventura. Un saggio storico di ambito socio-culturale ricco di immagini, testimonianze ed estratti (sia in giapponese che in italiano) dei contenuti della rivista. Contiene un’esclusiva intervista a Itō Bungaku, fondatore di Barazoku con cui ho tuttora il piacere di trascorrere piacevolissimi pomeriggi davanti a una tazza di tè.

“TRENT’ANNI DI BARAZOKU”, disponibile su Amazon sia in versione cartacea che Kindle.

Spero di avervi invogliato a scoprirne di più. Chi mi segue già su Instagram lo sa che parlo spesso di cultura LGBT giapponese. Questo testo ne racchiude l’essenza e le radici.

Buona lettura… e se vi andrà attendo le vostre recensioni!

MATRIMONI LGBT… MA NON TROPPO

MATRIMONI LGBT… MA NON TROPPO

L’importanza del matrimonio nella società giapponese

Come molte altre culture nel mondo, il Giappone riserva un ruolo assai importante alla continuazione della linea genealogica di derivazione maschile. Seppur con le dovute eccezioni e considerando i massicci mutamenti a cui la struttura tradizionale della società e della famiglia giapponese è andata incontro dal dopoguerra in poi, tutt’oggi gli studiosi di sociologia concordano nel riconoscere grande importanza al concetto di “primogenito maschio” e “continuità lineare della famiglia”. In questo contesto culturale l’importanza del matrimonio gioca un ruolo fondamentale e, inevitabilmente, rappresenta per gli omosessuali giapponesi un ostacolo arduo da superare o aggirare. Una dinamica a cui soccombere in mancanza di altre opzioni al di fuori del coming out pubblico o di altre soluzioni ben più drastiche quali anche il suicidio. Da qui l’esigenza di torvare una scappatoia, nei matrimoni di facciata.

Attualmente il Giappone si sta aprendo a stili di vita più diversificati, e la singletudine, così come l’omosessualità, stanno diventando scelte sempre più comuni e accettate anche a livello sociale. Tuttavia, fino a tempi recentissimi, una buona fetta della popolazione omosessuale avrebbe abbracciato l’alternativa dei matrimoni di facciata pur di seguire alla lettera il copione. Cedere alle obbligazioni sociali e optare per i matrimoni etero-normativo di facciata equivale a sofferenza. D’altronde, non sposarsi affatto equivarrebbe a infrangere una serie di responsabilità sociali nei confronti dei propri genitori e della società in senso ampio, che con ogni probabilità avrebbero potuto condurre all’isolamento dell’individuo in società. In alcune aree del Paese, questa scelta è ancora praticata a tutt’oggi.

Attivismo LGBT in Giappone per l'uguaglianza dei diritti
Attivismo LGBT in Giappone per l’uguaglianza dei diritti

Una fitta rete di norme sociali uniformanti

La società giapponese non è particolarmente nota per gli atti di violenza fisica. Se di “violenza” si può parlare, non è da intendersi nella forma di un’aggressione fisica bensì in una più sottile forma psicologica. La società in Giappone impone agli individui rigidi schemi comportamentali costituiti da doveri e obblighi nei confronti dell’Altro. Queste obbligazioni si intrecciano vicendevolmente in una rete fitta di relazioni particolarmente vincolate e vincolanti, e chi non fosse in grado di rispondere alle aspettative potrebbe pagarne lo scotto con l’esclusione dalla vita sociale attiva. Al fine di mantenere l’armonia della società, lo status quo all’interno del Paese, l’atteggiamento nei confronti dell’omosessualità fino all’inizio degli anni ’80 circa è stato caratterizzato dalla pressocché totale indiffferenza. Una sorta di negazione della sua presenza, che rimaneva ad ogni modo in sordina anche per interesse degli omosessuali stessi.

Per evitare confronti aperti e attriti sul piano dell’ordine pubblico la società sceglie una strategia in base alla quale non sussistono incongruenze. Lo stile di vita “corretto” rimane tale, e altri eventuali stili di vita considerati meno legittimi e “goliardici” devono essere gestiti diversamente. Ci si deve assicurare che l’eventuale incongruenza, il “problema”, rimanga relegato all’interno degli appositi confini ad esso preposti. Questi confini, sia fisici che astratti, sono rappresentati dai quarteri dell’intrattenimento gay come il quartiere di Nichōme a Shinjuku,o dall’immagine sostanzialmente stereotipata dell’omosessualità diffusa dai mezzi di comunicazione.

L’omosessualità negli anni ’70 e i matrimoni di facciata

La posizione predominante nel Giappone degli anni ’70 era quella di un “silenzio assenso” tra le autorità pubbliche, gli organi di censura e i dipartimenti interposti. Di comune accordo facevano del loro meglio per insabbiare la presenza pubblica dell’omosessualità, e addirittura la stessa comunità omosessuale preferiva di gran lunga una situazione di calma apparente in cui poter sfogare le proprie passioni in tranquillità relegandole a una dimensione rigorosamente privata senza dare in alcun modo nell’occhio.

Per tutte queste ragioni, erano e sono tutt’ora parecchi i casi di matrimoni di facciata volti a soddisfare l’immagine di superficie. Anche il desiderio di una famiglia con dei figli contribuì a incentivare questo meccanismo. In alcuni casi gli uomini gay, che si trattasse di un matrimonio combinato o meno, finivano per sposarsi con donne per lo più ignare delle preferenze di questi ultimi. Questa situazione ovviamente finiva per generare insoddisfazione e depressione tanto negli uomini che nelle malcapitate. Molti omosessuali ne erano consapevoli. Per risparmiare quelle donne innocenti da una vita di sofferenza e mediocrità, cercarono di ingegnarsi per trovare una scappatoia.

Matrimoni di facciata

Barazoku e la rubrica “L’angolo del matrimonio”

La soluzione arrivò grazie all’intervento di Barazoku, la prima rivista del Giappone rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale fondata nel 1971. Sin dai primi anni di vita di Barazoku iniziarono a pervenire presso la casa editrice richieste sia da parte di lettori gay sia di lettrici lesbiche, affinché si potesse entrare in contatto con una persona del sesso opposto. Inscenare matrimoni di facciata avrebbe permesso di adempiere al protocollo imposto dalla società senza tuttavia assumersi il peso di una relazione “reale” che implicasse rapporti sessuali indesiderati e una forzata affettività. In questo modo la Tribù delle Rose avrebbe potuto salvare le apparenze e al tempo stesso condurre una vita semi-libera evitando di coinvolgere individui innocenti. Fu così che nel 1981 si inaugurò sulle pagine di Barazoku il kekkon kōnā  結婚コーナー (L’angolo del matrimonio.

Alcuni degli annunci che si leggono nel kekkon kōnā del numero di aprile del 1981:

Da un po’ di tempo sono afflitto dalla questione del matrimonio. Se qualcuno mi comprende, se qualche ragazza è in difficoltà per lo stesso problema o se avete un’amica del genere, per favore scrivetemi. Che ne dici di impegnarci e costruire, noi due, una famiglia solare in cui si possa parlare liberamente di qualsiasi argomento? 174 x 67, sono un libero professionista di 32 anni, solare e dotato di senso dell’umorismo.

Ōsaka, Moriguchi – Matrimonio
La rubrica "L'angolo del matrimonio" nella rivista Barazoku
La rubrica “L’angolo del matrimonio” nella rivista Barazoku

Il Pride Month sta per giungere al termine, ma continuate a seguirmi per tanti altri spaccati di cultura LGBT in Giappone. Inoltre vi annuncio che alla fine di giugno, con la conclusione di questo mini progetto, ci sarà una sorpresa per voi (spero gradita!).

A presto!

L’AMORE NON CONOSCE BARRIERE (?)

L’AMORE NON CONOSCE BARRIERE (?)

Questione di comunicazione: i giapponesi e l’amore

Ogni persona è diversa, e ogni relazione è a sé. Detto ciò, alla luce delle esperienze accumulate in quasi dieci anni in Giappone, ho deciso di parlare un po’ del binomio giapponesi e amore e di alcune situazioni chiave per la comunicazione amorosa. Le riflessioni che seguiranno sui giapponesi e l’amore sono tratte dalla mia esperienza diretta, convalidata in parte anche da situazioni in comune con alcuni cari amici connazionali, nel campo delle relazioni sentimentali interculturali tra italiani e giapponesi.

L’amore in Giappone: comunicare non vuol dire parlare

Sono stato insieme a un ragazzo giapponese per quasi cinque anni, e non nascondo che questa è stata anche una delle ragioni principali per cui illo tempore decisi di trasferirmi. Poi le cose sono andate diversamente ma siamo comunque molto legati e io sto ancora qui. Tutto a posto. Tra l’altro, se volete farvi due risate con una carrellata di storie sul tema “fidanzati giapponesi”, vi lascio qui una bella intervista doppia in cui io e il mio amico Giordano raccontiamo un po’ com’è la vita quotidiana insieme a un partner giapponese (ex, nel mio caso). Disclaimer: a prescindere dalla mia esperienza personale, in questo articolo non parlerò di situazioni specifiche alla comunità LGBT bensì di comportamenti culturali che sono facilmente riscontrabili in qualsiasi contesto in cui ci siano giapponesi e una storia d’amore.

La consistenza corporea dell’aria

Una questione piuttosto urgente, da comprendere il prima possibile per interagire in maniera costruttiva con i giapponesi su tutti i livelli, è quella relativa al “leggere tra le righe”. I giapponesi sono appassionati di lettura: leggono in treno, in palestra, al konbini, per strada, ovunque. Ma i libri non sono l’unica cosa che amano leggere. Per sopravvivere in Giappone bisogna imparare a leggere l’aria (空気を読む).

Passeggiata in bicicletta nella periferia estrema del Giappone.
Io, come al solito, rischio la vita per fare il cretino. Lui era più saggio.

Questo di “leggere l’aria” è un concetto tipico della cultura giapponese, che è una cultura ad alto (altissimo) contesto. In Giappone le informazioni utili per una efficace comunicazione e una comprensione reciproca tra parlanti non vengono costantemente esplicitate, e in molti casi non se ne fa riferimento diretto. Bensì, ci si aspetta che il proprio interlocutore colga i segni para-verbali e collaterali allo scambio linguistico, muovendosi in maniera fluida navigando attraverso correnti invisibili all’interno della conversazione. È fondamentale quindi analizzare sempre il contesto, o meglio: leggere l’aria per l’appunto. L’aria, quella cosa invisibile ma perennemente presente senza la quale nulla esisterebbe. Il contesto è determinato dalla posizione sociale dei parlanti, le eventuali gerarchie, e così via, e ci guida per stabilire come rapportarci armoniosamente con gli altri, che si tratti di un gruppo o un singolo interlocutore.

Leggere l’aria, sempre. La raffinatezza del non detto

All’interno di una relazione, che è un microcosmo a sé, bisogna fare lo stesso. Nel mio caso, da bravo gaijin, questo ostacolo della comunicazione ha rappresentato forse la barriera culturale più consistente. Si dice che in una relazione la comunicazione sia tutto, ma “comunicare” non significa necessariamente parlare, prendere delle iniziative o fare qualcosa in maniera proattiva. In Giappone la comunicazione è sospesa nell’aria, ci si aspetta che l’altro capisca i nostri bisogni senza doverli elencare esplicitamente. I giapponesi, in amore, si aspettano che il nostro interlocutore comprenda le loro esigenze e i i loro desideri, senza doverli necessariamente mettere nella condizione di spiegare nero su bianco.

L’infantile aridità dell’esplicito

Le spiegazioni svelano tutto in maniera cruda, quasi brutale, e lasciano ben poco spazio all’abilità di comprendere. Spiegare all’altro il perché vorremmo che si comportasse in una determinata maniera equivarrebbe in parte anche ad ammettere di avere dei bisogni, delle esigenze. Sarebbe un po’ come se, parlandone all’altra persona, volessimo imporre loro i nostri desideri, facessimo i “capricci”. Fare una richiesta in questi termini a qualcun altro è un comportamento non contemplato dall’etichetta e dal sentire giapponesi. È un atteggiamento discutibile, giudicato decisamente infantile. È infantile fare delle richieste agli altri che possano recare anche il più minimo incomodo, ed è altrettanto fuori luogo pressare qualcuno perché verbalizzi esplicitamente i propri sentimenti, forzando la formulazione di una richiesta nei nostri confronti.

Comportarsi in questo modo, ossia non saper leggere l’aria, è un fatto molto grave in Giappone. Chi si comporta così è “bollato” come personaggio incomodo, difficile da avere intorno e da “gestire” perché minaccia l’armonia egli equilibri, e sicuramente infantile. Va da sé che comportamenti del genere sono tipici degli stranieri (occidentali), i quali, al contrario, si aspettano generalmente da qualsiasi rapporto estrema chiarezza verbale circa i pensieri dell’altro.

Mi ricordo cosa mi disse una volta il mio ex:

“Perché vuoi sapere sempre la ragione dei miei sentimenti? Ti dovrebbe bastare il fatto che quella cosa mi ha fatto stare male”.

(Ex di Loris)

È difficile per il nostro cervello occidentale accettare semplicemente lo stato delle cose. Con il senno di poi, oggi, capisco. È anche vero che adesso che ho imparato a leggere l’aria non penso mi ritroverei nelle stesse situazioni che in passato, ma all’epoca ero poco più di un gaijin che non sa dove iniziare per leggere l’aria.

Uno “scusa” tira l’altro…

Un’altra lezione che ho imparato, e che ugualmente mi ha aiutato tanto negli anni a seguire nell’approccio alla popolazione giapponese, è la modalità con cui scusarsi. Si tratta di un discorso molto complesso che mi piacerebbe affrontare nel dettaglio linguistico la prossima volta. In breve possiamo dire che la parola “scusa” non si limita a indicare l’ammissione di una colpa o di un errore. Non dice “scusa” solo chi ha sbagliato, in primo luogo perché nella maggior parte dei casi la verità sta sempre da qualche parte nel mezzo. Dopo una discussione ci si scambiano le scuse a vicenda, ma non si intende dire “è colpa mia”. Significa: ti chiedo scusa per averti fatto stare male. Anche qui, il mio cervello occidentale mi ha dato delle belle grane durante i primissimi anni in Giappone, anche nel contesto della mia relazione di coppia. Un’altra pillola di saggezza del mio ex:

“Dovresti chiedere scusa. Dopo una discussione ci si scusa entrambi perché, a prescindere da chi abbia torto e chi ragione, abbiamo fatto entrambi stare male l’altro. “Scusa” è la parola con cui inizia la conversazione”

(Ex di Loris)

Un approccio ibrido tra impostazioni culturali opposte

Anche qui aveva ragione. O meglio, io ho deciso che mi piaceva il ragionamento e ne ho abbracciato la filosofia. Sia chiaro che non voglio fare l’elogio di determinati comportamenti culturali in maniera acritica. Sono convinto che sia corretto iniziare la conversazione con queste scuse reciproche, cosa che prima di trasferirmi in Giappone non avrei mai neanche minimamento immaginato. Ma poi il problema, ossia il motivo della discussione, penso vada un minimo affrontato e analizzato. Purtroppo, in molti casi, le discussioni tra giapponesi terminano in un confuso sou desu ne, muzukashii desu ne (“eh già, sono situazioni difficili”) che vuol dire tutto e niente al tempo stesso. Forse alla fine questo si riconduce al punto di cui sopra: accettare senza questionare. Seppur oggi comprendo, non sono sempre disposto ad accettare questa impostazione, soprattutto nel privato. Il mio cervello è ormai ibrido, ma la mia metà occidentale razionale è ancora pulsante.

In compagnia di alcuni membri della sua famiglia, in visita a Tokyo

Un ingresso privilegiato alla comprensione

Non voglio dire che fidanzarsi con un cittadino giapponese sia l’unico modo per comprendere a fondo il Giappone, ma è indubbio che condividere spazio e tempo con l’intensità e la prossimità tipiche di una coppia, garantisce un accesso preferenziale alle dinamiche più nascoste e inarrivabili della cultura giapponese. Io, molto di quello che attualmente so sul Giappone e sulla sua cultura l’ho imparato un po’ per osmosi, un po’ per gioco, ma anche discutendo, incazzandomi e anche solo osservando silenziosamente intorno a me durante quegli anni di relazione. I miei primi anni di vita qui.

STORIA E ORIGINI DI SHINJUKU NICHOME

STORIA E ORIGINI DI SHINJUKU NICHOME

Shinjuku Nichome, da insignificante agglomerato a centro della vita gay

Il quartiere gay più grande di Tokyo, e per estensione di tutto il Giappone, è il vivace blocco di Shinjuku Nichome, conosciuto anche solamente come “Nicho” dai frequentatori abituali. Shinjuku Nichome è situato a pochi passi dall’uscita Est della stazione JR di Shinjuku, nei pressi dell’altrettanto noto quartiere dell’intrattenimento notturno (e del business sotterraneo a luci rosse) di Kabukicho. Si stima che il quartiere gay di Shinjuku Nichome, con la sua superficie di circa 105,238 m2, ospiti attualmente tra i 200 e i 300 esercizi a tematica LGBT tra bar, discopub, club, saune, negozi, associazioni, ecc.

Shinjuku Nichome di notte
Shinjuku Nichome di notte

Quando Shinjuku non esisteva ancora

La storia di questo quartiere è estremamente interessante e avventurosa. Per comprendere le origini e l’aspetto attuale di Shinjuku Nichome come hub della cultura gay, è necessario viaggiare nel tempo e fare un salto indietro di diversi secoli sino all’epoca Edo (1603-1867). Durante il periodo Edo il Paese (o meglio, la parte centrale dell’isola di Honshu in cui si trovavano le principali città) era attraversato da cinque arterie stradali che costituivano il sistema del Gokaido (五街道). Il Gokaido, il principale sistema terrestre viario di epoca Edo, collegava la città dello shogun ai punti principali dell’isola di Honshu, primo su tutti la città di Kyoto dove risiedeva l’imperatore.

Le città “postali” di epoca Edo

Nel 1625, su richiesta dei viandanti in viaggio lungo la Koshu Kaido, una delle cinque arterie, che conduceva alla attuale prefettura di Yamanashi, venne stabilita una ulteriore mini stazione di riposo per rifocillarsi tra una tappa e l’altra del viaggio, in corrispondenza della zona dove attualmente sorge Shinjuku Nichome. Ai margini di queste cinque arterie stradali sorgevano diverse cittadine “postali” (shukuba), ossia grandi o piccoli agglomerati provvisti quanto meno dei servizi e le infrastrutture basilari utili ai viaggiatori per rifocillarsi, riposarsi, acquistare beni di prima necessità, ecc. L’area di Shinjuku, che all’epoca non aveva ancora un nome, non qualificava come una “città postale” per le sue esigue dimensioni, ma a seguito delle richieste dei viaggiatori nei pressi del minuscolo raggruppamento di case fu eretto un tempio, e l’area ribattezzata Naito Shinjuku(内藤新宿).

Qui, oltre alle locande e le taverne, si dice che presto sorsero anche delle case apposite per la prostituzione e l’intrattenimento dei viandanti.

Koshu Kaido antica

Lo sviluppo di Tokyo Ovest in epoca Meiji

La prima apparizione di una nomenclatura come la conosciamo attualmente apparve all’inizio del Novecento, quando nel 1903 venne inaugurata la stazione di Shinjuku Nichome sulla linea di tram che attraversava la parte ovest di Tokyo. Per tutto il periodo bellico Il carattere “erotico” della zona continuava ad esistere e si decise di spostare in quella zona, ancora relativamente nuova e non sufficientemente sviluppata né popolata, parte del business legato alla prostituzione dai principali quartieri di piacere della città. Uno degli intenti era sicuramente quello di incrementare il volume di persone che gravitavano nella zona occidentale di Tokyo. Questo articolo racconta molto bene lo sviluppo di Shinjuku come centro economico di Tokyo e del Paese.

Shinjuku annu '20
Shinjuku negli anni ’20

Nel 1921 il trasferimento di parte delle strutture per l’intrattenimento e il business a luci rosse fu completato, ma un grande incendio devastò la zona rendendola inagibile. Comincio immediatamente l’opera di ricostruzione e due anni dopo le strutture erano di nuovo pronte per l’utilizzo. Proprio in quell’anno, nel 1923, il Grande Terremoto del Kanto colpì la capitale e rase al suolo moltissimi edifici e recò ingenti danni. Yoshiwara, il principale quartiere di piacere, non fu risparmiato e il business della prostituzione andò incontro a un crollo severo. Miracolosamente la zona di Shinjuku non registrò danni troppo gravi, e questo favorì la transizione del business dalla zona est di Tokyo alle emergente ovest.

Storico hub della prostituzione

Fino alle fine degli anni ‘50 Shinjuku Nichome era in assoluto uno dei quartiere più prominenti di Tokyo per il business della prostituzione (eterosessuale). Poi accadde qualcosa che segnò le sorti dello sviluppo futuro di questo regno. Nel 1958, infatti, il Giappone mise al bando la prostituzione, che da quel momento diventava illegale. Nel giro di pochi mesi la maggior parte dei locali e degli esercizi adibiti alla prostituzione dovette chiudere i battenti, e trasferirsi altrove sparpagliandosi per la città. Il quartiere di Shinjuku Nichōme, tutt’a un tratto, era spopolato.

La svolta degli anni ’50 e la virata di Shinjuku Nichome in chiave gay

Fu un uomo avanguardista e intraprendente rispondente al nome di Mitsuyasu Maeda a stabilire il destino di Nichōme. Maeda gestiva nella zona già da alcuni anni una normale sala da tè, il “Ran’ya”(蘭屋), che decise di convertire in locale per omosessuali. Ovviamente all’epoca, considerando il pesante pregiudizio che stigmatizzava l’omosessualità, non si pronunciava, non si scriveva, non si usava in nessuna forma quel vocabolo. I clienti e i gestitori agivano con un codice basato sul silenzio assenso.  

Shinjuku Nichome ai giorni nostri
Shinjuku Nichome ai giorni nostri

Con la messa al bando della prostituzione e lo svuotamento dei locali di Nichome, Maeda acquistò gran parte del terreno della zona, e investì nella proliferazione di business a tematica gay, attraendo dalle zone storiche di Ueno e Asakusa una gran parte dei bar per omosessuali. Il fatto che Maeda fosse originario di Okinawa spiega anche perché, tutt’ora, a Nichōme si trovano parecchi ristoranti di cucina di Okinawa e Amami. Inoltre, all’epoca, non di rado lo staff dei bar gay offriva servizi di sesso a pagamento ai clienti qualora lo richiedessero. Questa modalità di business era tutto sommato in linea con il carattere originario di Nichōme, come era stato fino agli anni precedenti.

Il passa parola sortì effetto. Nel giro di una decina di anni, alla fine degli anni ’60, il quartiere di Shinjuku Nichome era ormai popolato per la quasi totalità da bar, club, negozi, sale da tè per omosessuali. Tuttavia non esisteva ancora un senso di comunità, infatti la vita notturna dei bar era vissuta in completa clandestinità. I clienti in procinto di lasciare il bar chiedevano ai camerieri di affacciarsi prima fuori a controllare che non stesse passando nessuno.

Barazoku, la prima rivista gay del Giappone

È in questo clima di grande fermento che nasce Barazoku, la prima rivista del Giappone a tematica gay rivolta esclusivamente a un pubblico omosessuale. Sin dalla sua fondazione nel 1971, Barazoku contribuirà in maniera inestimabile alla nascita del primo vero e proprio nucleo di comunità omosessuale giapponese. L’incontro virtuale dei lettori prima sulle pagine della rivista e poi concretamente nei locali appositi fu il punto di partenza. I trent’anni di vita di Barazoku raccontano la nascita e l’affermazione della Tribù delle Rose, l’influenza che la rivista ha esercitato sullo sviluppo di Nichome e viceversa rappresentando il punto di partenza della comunità e delle moderna cultura gay giapponese.

…E io, che non potevo farmi scappare l’occasione, ci ho scritto su un libro. Se vi interessa il tema, non perdete i prossimi aggiornamenti! A presto con altre pillole di storia LGBT e molte altre info su Barazoku e la sua Tribù delle Rose.

Stay tuned!

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