L’AMORE NON CONOSCE BARRIERE (?)
Questione di comunicazione: i giapponesi e l’amore
Ogni persona è diversa, e ogni relazione è a sé. Detto ciò, alla luce delle esperienze accumulate in quasi dieci anni in Giappone, ho deciso di parlare un po’ del binomio giapponesi e amore e di alcune situazioni chiave per la comunicazione amorosa. Le riflessioni che seguiranno sui giapponesi e l’amore sono tratte dalla mia esperienza diretta, convalidata in parte anche da situazioni in comune con alcuni cari amici connazionali, nel campo delle relazioni sentimentali interculturali tra italiani e giapponesi.
L’amore in Giappone: comunicare non vuol dire parlare
Sono stato insieme a un ragazzo giapponese per quasi cinque anni, e non nascondo che questa è stata anche una delle ragioni principali per cui illo tempore decisi di trasferirmi. Poi le cose sono andate diversamente ma siamo comunque molto legati e io sto ancora qui. Tutto a posto. Tra l’altro, se volete farvi due risate con una carrellata di storie sul tema “fidanzati giapponesi”, vi lascio qui una bella intervista doppia in cui io e il mio amico Giordano raccontiamo un po’ com’è la vita quotidiana insieme a un partner giapponese (ex, nel mio caso). Disclaimer: a prescindere dalla mia esperienza personale, in questo articolo non parlerò di situazioni specifiche alla comunità LGBT bensì di comportamenti culturali che sono facilmente riscontrabili in qualsiasi contesto in cui ci siano giapponesi e una storia d’amore.
La consistenza corporea dell’aria
Una questione piuttosto urgente, da comprendere il prima possibile per interagire in maniera costruttiva con i giapponesi su tutti i livelli, è quella relativa al “leggere tra le righe”. I giapponesi sono appassionati di lettura: leggono in treno, in palestra, al konbini, per strada, ovunque. Ma i libri non sono l’unica cosa che amano leggere. Per sopravvivere in Giappone bisogna imparare a leggere l’aria (空気を読む).
Questo di “leggere l’aria” è un concetto tipico della cultura giapponese, che è una cultura ad alto (altissimo) contesto. In Giappone le informazioni utili per una efficace comunicazione e una comprensione reciproca tra parlanti non vengono costantemente esplicitate, e in molti casi non se ne fa riferimento diretto. Bensì, ci si aspetta che il proprio interlocutore colga i segni para-verbali e collaterali allo scambio linguistico, muovendosi in maniera fluida navigando attraverso correnti invisibili all’interno della conversazione. È fondamentale quindi analizzare sempre il contesto, o meglio: leggere l’aria per l’appunto. L’aria, quella cosa invisibile ma perennemente presente senza la quale nulla esisterebbe. Il contesto è determinato dalla posizione sociale dei parlanti, le eventuali gerarchie, e così via, e ci guida per stabilire come rapportarci armoniosamente con gli altri, che si tratti di un gruppo o un singolo interlocutore.
Leggere l’aria, sempre. La raffinatezza del non detto
All’interno di una relazione, che è un microcosmo a sé, bisogna fare lo stesso. Nel mio caso, da bravo gaijin, questo ostacolo della comunicazione ha rappresentato forse la barriera culturale più consistente. Si dice che in una relazione la comunicazione sia tutto, ma “comunicare” non significa necessariamente parlare, prendere delle iniziative o fare qualcosa in maniera proattiva. In Giappone la comunicazione è sospesa nell’aria, ci si aspetta che l’altro capisca i nostri bisogni senza doverli elencare esplicitamente. I giapponesi, in amore, si aspettano che il nostro interlocutore comprenda le loro esigenze e i i loro desideri, senza doverli necessariamente mettere nella condizione di spiegare nero su bianco.
L’infantile aridità dell’esplicito
Le spiegazioni svelano tutto in maniera cruda, quasi brutale, e lasciano ben poco spazio all’abilità di comprendere. Spiegare all’altro il perché vorremmo che si comportasse in una determinata maniera equivarrebbe in parte anche ad ammettere di avere dei bisogni, delle esigenze. Sarebbe un po’ come se, parlandone all’altra persona, volessimo imporre loro i nostri desideri, facessimo i “capricci”. Fare una richiesta in questi termini a qualcun altro è un comportamento non contemplato dall’etichetta e dal sentire giapponesi. È un atteggiamento discutibile, giudicato decisamente infantile. È infantile fare delle richieste agli altri che possano recare anche il più minimo incomodo, ed è altrettanto fuori luogo pressare qualcuno perché verbalizzi esplicitamente i propri sentimenti, forzando la formulazione di una richiesta nei nostri confronti.
Comportarsi in questo modo, ossia non saper leggere l’aria, è un fatto molto grave in Giappone. Chi si comporta così è “bollato” come personaggio incomodo, difficile da avere intorno e da “gestire” perché minaccia l’armonia egli equilibri, e sicuramente infantile. Va da sé che comportamenti del genere sono tipici degli stranieri (occidentali), i quali, al contrario, si aspettano generalmente da qualsiasi rapporto estrema chiarezza verbale circa i pensieri dell’altro.
Mi ricordo cosa mi disse una volta il mio ex:
“Perché vuoi sapere sempre la ragione dei miei sentimenti? Ti dovrebbe bastare il fatto che quella cosa mi ha fatto stare male”.
(Ex di Loris)
È difficile per il nostro cervello occidentale accettare semplicemente lo stato delle cose. Con il senno di poi, oggi, capisco. È anche vero che adesso che ho imparato a leggere l’aria non penso mi ritroverei nelle stesse situazioni che in passato, ma all’epoca ero poco più di un gaijin che non sa dove iniziare per leggere l’aria.
Uno “scusa” tira l’altro…
Un’altra lezione che ho imparato, e che ugualmente mi ha aiutato tanto negli anni a seguire nell’approccio alla popolazione giapponese, è la modalità con cui scusarsi. Si tratta di un discorso molto complesso che mi piacerebbe affrontare nel dettaglio linguistico la prossima volta. In breve possiamo dire che la parola “scusa” non si limita a indicare l’ammissione di una colpa o di un errore. Non dice “scusa” solo chi ha sbagliato, in primo luogo perché nella maggior parte dei casi la verità sta sempre da qualche parte nel mezzo. Dopo una discussione ci si scambiano le scuse a vicenda, ma non si intende dire “è colpa mia”. Significa: ti chiedo scusa per averti fatto stare male. Anche qui, il mio cervello occidentale mi ha dato delle belle grane durante i primissimi anni in Giappone, anche nel contesto della mia relazione di coppia. Un’altra pillola di saggezza del mio ex:
“Dovresti chiedere scusa. Dopo una discussione ci si scusa entrambi perché, a prescindere da chi abbia torto e chi ragione, abbiamo fatto entrambi stare male l’altro. “Scusa” è la parola con cui inizia la conversazione”
(Ex di Loris)
Un approccio ibrido tra impostazioni culturali opposte
Anche qui aveva ragione. O meglio, io ho deciso che mi piaceva il ragionamento e ne ho abbracciato la filosofia. Sia chiaro che non voglio fare l’elogio di determinati comportamenti culturali in maniera acritica. Sono convinto che sia corretto iniziare la conversazione con queste scuse reciproche, cosa che prima di trasferirmi in Giappone non avrei mai neanche minimamento immaginato. Ma poi il problema, ossia il motivo della discussione, penso vada un minimo affrontato e analizzato. Purtroppo, in molti casi, le discussioni tra giapponesi terminano in un confuso sou desu ne, muzukashii desu ne (“eh già, sono situazioni difficili”) che vuol dire tutto e niente al tempo stesso. Forse alla fine questo si riconduce al punto di cui sopra: accettare senza questionare. Seppur oggi comprendo, non sono sempre disposto ad accettare questa impostazione, soprattutto nel privato. Il mio cervello è ormai ibrido, ma la mia metà occidentale razionale è ancora pulsante.
Un ingresso privilegiato alla comprensione
Non voglio dire che fidanzarsi con un cittadino giapponese sia l’unico modo per comprendere a fondo il Giappone, ma è indubbio che condividere spazio e tempo con l’intensità e la prossimità tipiche di una coppia, garantisce un accesso preferenziale alle dinamiche più nascoste e inarrivabili della cultura giapponese. Io, molto di quello che attualmente so sul Giappone e sulla sua cultura l’ho imparato un po’ per osmosi, un po’ per gioco, ma anche discutendo, incazzandomi e anche solo osservando silenziosamente intorno a me durante quegli anni di relazione. I miei primi anni di vita qui.